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Apocalisse Peluche

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Apocalisse Peluche
[Cuddly Holocaust]

di Carlton Mellick III

romanzo, bizarro fiction, horror

traduzione: Giovanni Fioretti
illustrrazione cover: Manuel Preitano
postfazione: Chiara Gamberetta

ebook in vendita quio quio...


collana Vaporteppan. 14


Antonio Tombolini Editore


euro 1,99



"Peluche, bambole e soldatini dotati di intelligenza artificiale non ne potevano più di venire maltrattati da bambini viziati e distrutti al minimo accenno di ribellione. Senza libertà, senza diritti, senza una speranza per il futuro, la loro unica possibilità di salvezza era di sterminare gli umani."  [dalla descrizione su Vaporteppa]

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Vi racconto il mio approccio/incontro col bizarro fiction, non perché sia interessante in sé, ma perché può aiutare a capire che non si smette mai di imparare.Poicercherò di instillarvi un po' di interesse per uno dei romanzi più - come dire - divertenti che abbia letto negli ultimi tempi (anni?).
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l'autore: Carlton Mellick III.
No, non è esattamente un prete...
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Da un (bel) po'di tempo continuavo a incontrare articoli, recensioni, considerazioni ecc. in merito ai generi letterari chiamatiNew weird e Bizarro fiction che, almeno in teoria, avrebbero dovuto solleticare il mio interesse al punto da provare a leggerne qualche produzione. 
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In realtà stavo rischiando quello che mi è accaduto con la nuova e nuovissima generazione di horror movies: molto fascino, tanto interesse, interi pomeriggi e serate a leggerne in rete (recensioni, articoli, saggi ecc.) per poi non riuscire a vederne praticamente nessuno.
Perché? Perché "non è roba che fa per me!".
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Uno dei film che"so a memoria" e di cui ho letto tutto il leggibile...
peccato che non abbia mai avuto il coraggio di vederlo!
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Sono sempre stato convinto che non essendo possibile leggere, vedere, ascoltare, assaggiare tutto, allora una serie di cose le devo escludere a priori, basandomi sul mio istinto, su ciò che so, sui miei gusti oppure se preferite sulla mia presunzione.
Intendiamoci: sono ancora completamente convinto di tutto ciò, è innegabile che non si possa "fare" tutto e che ogni scelta è anche un'esclusione. Così come sono ancora convinto che anche se non ho mai assaggiato la cacca, resto convinto che sia disgustosa ed escludo volentieri l'ipotesi di un assaggio. Sbaglierò, magari la cacca è deliziosa... beh, pazienza, accetto il rischio dell'errore e continuerò a non assaggiarla!
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Al di là di questo sgradevole, ma necessario, excursus scatologico, ultimamente continuavo a leggere o in certi casi addirittura a ri-leggere articoli recensioni e così via riguardanti il New weird e il Bizarro fiction, prevalentemente sul sito Baionette Librarie, su Tapirullanzae sul blogGamberi Fantasy, però non più visibile da qualche giorno.
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Evidentemente qualcosa - come per la nuova frontiera del cinema horror - qualcosa di questo nuovo genere letterario autonominatosiBizarro fiction suscitava una certa attrazione su di me. 
Per quanto riguarda le letture libresche pur essendo - come quasi tutti - di un'ignoranza abissale, sono sempre stato un dannatissimo snob. Eh beh, non è che possiamo tutti essere perfetti, nevvero? 

Leggo quasi esclusivamente classici[1] (che poi li capisca ancheè un altro conto) e non sono minimamente attirato dalle nuove leve. Beh, c'è anche un motivo per questo: tra tutte le cose che ho letto autoprodotte, autopubblicate, pubblicate gratis in rete ecc., quelle che mi sono piaciute saranno uno 0,02 per cento, a essere larghi di manica. Certamente è un problema mio che non capisco la grandezza di questi/e diciassettenni (o poco più) geni incompresi, ma è umano che quando un'esperienza negativa si ripete più volte, alla fine la si eviti.
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Cover dell'edizione americana
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Quindi per quanto indubbiamente incuriosito, ero scettico sul fatto che questo tipo di letteratura potesse essere "adatta" a me. Inoltre, chissà perché, me la immaginavo anche scritta non troppo bene, così, forse per esigenze di ulteriore bizzarria". Ero, insomma, già a buon punto nella produzione di un pregiudizio.
Stavolta però ha vinto la curiosità ealla fine, convinto anche dal prezzo che definire "abbordabile"è un eufemismo, mi sono convinto ad acquistare e a leggere il mio primo ebook di Bizarro fiction: Apocalisse Peluche, di Carlton Mellick III, della collana Vaporteppa per la casa editrice Antonio Tombolini Editore, uscito originariamente nel 2013 per l'americana Eraserhead Press.
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Per avere un cenno sulla trama basta andare sul sito di Vaporteppa, così come ho fatto io prima dell'acquisto, e ci si rende subito conto, se si è digiuni di Bizarro fiction come il sottoscritto, che stiamo parlando di qualcosa di veramente, veramente... bizzarro! 
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carini vero?... vero?... VERO???...
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Ora, per quanto ho capito, il genere Bizarro fiction si basa, ovviamente, sulla bizzarria, ma dando per scontato (patto sottoscritto con chi legge) che tutta quella bizzarria abbia una sua logica e coerenza interna. Inutile, anzi controproducente - e anche un po' da stronzi, secondo me - farsi domande di tipo "scientifico" o che rispecchino troppo una logica "realistica". Insomma, siamo lontani per esempio dalla fantascienza che appunto proprio perché contiene al suo interno la parola"scienza" deve necessariamente "agire" in un universo scientificamente credibile (almeno credo, non sono un esperto di sf, anche se ne ho letta e ne leggo ancora parecchia).
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Ma allora nel Bizarro fiction ci si può buttare dentro qualsiasi cosa senza preoccuparsi di nulla che non sia l'altissimo tasso di bizzarria?!?
Beh, no. Tenuto conto che sono solo alla mia seconda esperienza [2] con questo genere, una delle cose che ho capito è che all'interno del romanzo logica e coerenza sono ferree. Certo, nella bizzarria più assurda, ma comunque ferree.
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In Apocalisse Peluche i giocattoli hanno preso il potere; non sono giocattoli "normali" ovviamente, sono smart-toys, giocattoli di una nuova generazione, specie di A.I. in fase sperimentale. Inutile ricercare all'interno del romanzo un qualche principio scientifico accettabile per cui questo è possibile; di fatto non ha alcuna importanza e vi assicuro che leggendo il romanzo, l'ultima cosa che vi verrà da domandarvi è come diavolo hanno fatto gli smart-toys a diventare così intelligenti, e soprattutto così potenti. Il romanzo è davvero moltoavvincente, talmente ben scrittoda non necessitare assolutamente di domande extra-romanzo.
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Uh! Una coniglietta...
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Rubo qualche frase alla postfazione di Chiara Gamberetta per chiarire meglio alcuni concetti perché mi rendo conto che comprendere bene di cosa stiamo parlando possa essere creare un po' di confusione:
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"Nelle sue opere [di Mellick, ndO] niente o quasi accade in modo irrazionale, o illogico. Gli elementi strani si combinano tra loro come le rotelle di un ingranaggio fornendo un'immagine finale  di grande coerenza e di notevole plausibilità; spesso le storie di Mellick sono più coerenti e verosimili della gran parte della narrativa fantastica tradizionale."
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Sull'ultima frase, quella dopo il punto-e-virgola, non saprei che dire perché sono tutt'altro che un esperto di letteratura fantastica tradizionale (immagino si intenda qualcun'altro oltre ai soliti Poe e Lovecraft, che ho letto e periodicamente rileggo con piacere); ma avendo letto per ora due opere di Mellick posso confermare al 100% la prima parte dell'asserzione di Chiara Gamberetta.
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Apocalisse Peluche, bizzarro finché volete (no anzi, pure di più!) fornisce tutte le risposte alle eventuali domande di chi legge, niente "buchi narrativi", niente cose lasciate in sospeso; altri tipi di domande o non sono pertinenti o sono inutili. Ricordo una volta che mentre guardavamo un cartone alla tv (Superman dei Fratelli Fleischer) un mio amico sbottò"Ma non è possibile!" quando vide Superman saltare dalle ali di un aereo in volo a quelle di un altro aereo in volo e poi a un terzo e così via. Cioè: che Superman superasse con un balzo interi grattacieli, che corresse più forte di una locomotiva, che i proiettili gli rimbalzassero sulla pelle (ecc.) ci stava, ma diobonino che saltasse da un aereo in volo all'altro questo no, eh! Beh, se accetti il patto iniziale non è che poi ti lamenti perché "non è possibile che i giocattoli siano intelligenti!", mi spiego?
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eventuali lamentele fatele direttamente a lui... 
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In Apocalisse Peluche i giocattoli diventano i padroni del pianeta e fanno una guerra spietata agli umani, fattene una ragione e goditi il libro, che è uno spasso, ben scritto, teso come una corda di violino dall'inizio alla fine (e che fine!). D'altronde se prima ancora di terminare il libro mi sono precipitato ad acquistare altri quattro bizarro-romanzi significa qualcosa vorrà pur dire, immagino.
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Ancora una citazione dalla postfazione e poi vi lascio correre ad acquistare il vostro primo romanzo di Bizarro fiction, non senza aver specificato ben bene che non si tratta di letteratura per anime candidissime e ipersensibili: beninteso, non sono così d'accordo con questa sbandierata scorrettezza politica - anzi per ora non ne ho trovata granché - ma sia chiaro che fluidi corporei, scene truculente, particolari splatter e decessi fantasiosamente disgustosi abbondano. Ma oltre a tutto ciò siamo in presenza di uno scrittore il cui
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"...stile è molto "trasparente", diretto, composto da periodi brevi e semplici. La sua prima persona accompagna il lettore senza mai porre ostacoli alla comprensione; ci si può rilassare e godersi pienamente gli avvenimenti bizzarri e assurdi."
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Sapete che evito sempre gli spoiler quindi credo non abbiate capito granché della trama di Apocalisse Peluche (comunque c'è sempre il link a Vaporteppaper rimediare, basta un click), quindi mi sono sforzato di non rivelarvi nulla di Julie, la protagonista del romanzo della quale è quasi impossibile non innamorarsi, personaggio più solido e meglio costruito di tantissimi altri romanzi che ho letto (ad esempio di fantascienza). E questo non vale solo per lei, ma per tutti gli altri personaggi presenti nel romanzo.
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Un po'vi invidio, voi che non l'avete ancora letto...
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Note:
[1]"Classici" inteso sia in quanto generalmente definiti come tali, sia definiti tali da me medesimo senza appurare se lo siano effettivamente in modo più o meno ufficiale e/o generale. Insomma, forse mi sono autocostruito una categoria di "classici" a mio personale uso e consumo. E' per caso contro la legge? 
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[2]Ma certo! Pensavate che dato l'entusiasmo per Apocalisse Peluche mi fossi fermato lì?!? Nel frattempo ho letto La Vagina infestata (sempre di Mellick III) e ho già comprato altri QUATTRO romanzi di Bizarro fiction! Quando faccio le cose, cerco di farle per benino.
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Eh eh eh!

L'ultimo dell'anno

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L'Ultimo dell'anno...



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Ultimo giorno di questo strano anno appena trascorso.
Riuscite a imaginare a qualcosa di più banale, noioso e scontato di un "post dell'ultimo dell'anno"
in un blog?...
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Il 2016 è cominciato malissimo, con la morte di David Bowie (lutto ancora non superato per quanto mi riguarda), ha proseguito con altri lutti, ma poi verso la fine dell'anno si è trasformato in una festa, una gioia, un sogno diventato realtà: posso affermare senza retorica che il 7 ottobre 2016 è stato il giorno più bello della mia vita, ossia il giorno in cui mio marito ed io abbiamo finalmente potuto sposarci.
Questa gioia copre qualsiasi cosa, copre anche i dolori che inevitabilmente si accaniscono contro ognun* di noi per dimostrarci che siamo, nonostante tutto, ancora viventi. 
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Nel corso del 2016 ho anche cambiato ufficio, luogo di lavoro, mansione, colleghi/e, capi/e - grazie a Shiva e a tutte le divinità hindu (le uniche degne di una qualche fiducia, secondo me, dopo la morte di quelle greche antiche) e ciò ha segnato un innalzamento di qualità della mia vita e soprattutto del mio umore.

Nonostante gli acciacchi - dovuti all'età e alla sfiga - che proprio da quest'anno sono diventati più insistenti, fastidiosi e pure un po' più seri.

Ma basta divagare.

Avevo pensato a questo post come a una breve spiegazione, saluto, addio, magari solo arrivederci, ringraziamento. Ma soprattutto spiegazione.

Negli ultimi mesi ho iniziato a scrivere parecchi pezzi su vari fumetti letti e molto piaciuti (qualche esempio: Duckenstein di Enna - Celoni, Patience di Daniel Clowes, Faith di Houser, Sauvage et alii, Quaderni Giapponesi di Igort, Revolushow di Falbo - Caligaris, Gli Incredibili Inumani di Soule - Walker et alii...).

Come potete constatare non uno di questi scritti compare su questo blog (né su altri, s'intende).
Perché non ne ho terminato nemmeno uno. Tutti pezzi, anche lunghetti, che non so come concludere, che non mi convincono, che trovo - e anzi sono - inutili a me e a voi.
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Devo anche dire una cosa, un po' brutale e totalmente suicida, ma devo dirla: in queste settimane passate senza scrivere né pubblicare niente il blog non mi è mancato.
Certo, mi sentivo in colpa per non aver pubblicato nulla e proprio questo assurdo, inutile e molto sciocco senso di colpa mi ha fatto capire, una buona volta, che è proprio il momento di prendermi una bella pausona dal blog, che ora come ora non so assolutamente dire quanto durerà e se avrà termine o meno.

Un'altra confessione è che ultimamente i fumetti, che continuo ad amare molto, occupano parecchio spazio in meno nelle mie letture quotidiane. 
Ho - prendete questa affermazione con mille molle - "ricominciato a studiare"; non ancora in modo "istituzionale", ma sto riflettendo anche su questo. L'aver dovuto interrompere gli studi prima della laurea è una ferita grossa per me e chissà che prima o poi non riesca a concretizzare questo piccolo sogno.

Ma lauree o meno, il fatto è che piano piano, negli ultimi cinque-sei anni si è fatta strada nella mia anima una nuova passione, che come tutte le passioni pretende molto per il molto che dà in cambio. Cominciò del tutto casualmente con una lettura fatta in vacanza: Cassandra, di Christa Wolf.
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Una delle cose che questa nuova, bruciante passione mi richiede è di dedicare un po' di tempo in meno ai fumetti. Ne leggo sempre molti, ma - come dire - me li godo e basta, senza l'angoscia di dover cercare (e quasi mai trovare...) - qualcosa di intelligente o almeno interessante da dire su di essi.

Ed è un sollievo...

Certo, sarei sciocco e bugiardo se dicessi che la pausona la prendo a cuor leggero: la Rete ti intrappola in processi mentali complessi e difficili da aggirare, come per esempio la stupida, falsa, ma potente sensazione che non essendo più in Rete cesserò quasi di esistere... Buffo eh? Eppure, amici e amiche blogger, siete davvero sicuri e sicure che questa sensazione vi sia così estranea?...

Quindi sì, ho paura di perdervi e proprio per questo continuerò a seguire i vostri blog e, quando avrò qualcosa di intelligente o almeno interessante da dire, a commentare i vostri articoli.

E poi, chissà, magari se mi torna l'ispirazione uno scritto ogni tanto, senza impegno, posso anche pubblicarlo, no? Il blog resta qui, non cancello nulla e non chiudo "definitivamente" alcuna porta. Magari ogni tanto posterò qualche articolo dei vostri che mi piace particolarmente (come ho fatto spesso e volentieri con quelli dell'amico Wally Rainbow

Grazie di cuore per avermi seguito fin qui.
Auguro a tutte e a tutti voi un 2017 in cui le gioie superino di gran lunga i dolori.
Un abbraccio forte!!!
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Orlando

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non ho resistito... è la foto più bella del nostro matrimonio! :D



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E Finalmente...

Riproposte 1 - L'Arte del Prof. Bad Trip

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L'arte del Prof. Bad Trip

di Prof. Bad Trip(aka Gianluca Lerici)


Collage, Agenda Psycotica, Acrilici, Il pasto nudo a fumetti, chine, sketchbook
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pag. 224, 96 a colori
 
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€ 20,00
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ShaKe Edizioni
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Ciao!Per ora non ho tempo di scrivere nuovi articoli, ma per non far "morire" completamente Fumetti di Carta, comincerò da oggi a"riproporre"dei mieivecchi scritti, mai pubblicati su questo specifico blog. .
Nello specifico, questo libro dovrebbe essere ancora disponibile presso la casa editrice o ordinabile in libreria.
 
 

[Originariamente scritto nel 2008]
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"Sai come ha fatto il Prof. Bad Trip a produrre così tanto? Perché ci ha messo dentro l'amore."  Jena Filaccio
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Si scrive di questo libro sotto l'effetto di una mancanza. Ciò non cambia il giudizio sull'opera di Gianluca Lerici, in arte Prof. Bad Trip, né cambia il giudizio sul libro.
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E' difficile scrivere di questo libro, primo perché il Prof. Bad Trip purtroppo non è più su questa Terra e dunque non potremo mai più vedere sue opere nuove: ciò che ci resta è quel che c'è già, che ha già fatto e una consapevolezza del genere spaventa - e intristisce ulteriormente. Secondo perché la qualità della maggior parte delle cose che il Prof. ha fatto nel corso degli ultimi 27-28 anni è eccelsa e se la conosci non puoi che amarla (questo anche prima che il Prof. ci lasciasse) e se non la conosci devi proprio farlo, e allora una delle occasioni è proprio questo libro.
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Bad Trip sotto la Cappella Sistina Underground del suo studio Gli insoliti ignoti a La Spezia. www.gomma.tv
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Perdersi nelle infinite spirali dei mostri, migliaia di mostri che il Prof. bad Trip ha disegnato, dipinto, serigrafato, creato. Quei mostri siamo noi che ci perdiamo dentro le spirali di noi stessi, con una circolarità karmica che ci riporta infine al centro.
Io credo che il Professore avesse capito se non tutto, comunque tanto.
I noiosi discutono di cosa sia 'arte'; poi c'è chi l'arte la fa, la vive, ne è intimamente costituito e tramite essa - e quindi l'anima - che sia ancora su questo pianeta o meno, continua a parlare, gridare, dire cose importantidestinate a chi le voglia e le possa condividere.
Mutazioni organiche, carne - spesso corrotta - e acciaio, microchip, ossa teschi alfabeti.
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Illuminati - Prof. Bad Trip
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Il Professore ha saputo esprimersi in molti modi diversi usando diversi strumenti, soprattutto la testa e il cuore e l'amore, come dice Jena Filaccio.
Nel libro ci sono tantissimi disegni in bianco e nero che ti schiaffeggiano il cervello e ti gridano addosso, comincia proprio così 'L'Arte del Prof. Bad Trip'.
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Poi c'è 'Il Pasto Nudo', tratto da Burroughs - che fu anche il primo fumetto pubblicato dalla ShaKe Edizioni Underground - che ha una potenza visiva sconvolgente e continuerà ad avercela nei tempi a venire. Introduzione importante di E. 'Gomma' Guarneri, intervista alla Fernanda Pivano, poi comincia 'Il Pasto Nudo', dedicato allo stesso Burroughs e allo 'spirito libero di Darby Crash'. E' difficile - molto - trovare in giro opere con una tale dirompenza, visiva e non solo. Il Professore non ha taciuto nulla, ha mostrato tutto, anche quel che non si deve né si può mostrare. Non è un esperienza indolore.
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Il Male - Prof. Bad Trip
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Il libro continua coi collage, realizzati sempre con materiale di recupero, talvolta raccolto dalla spazzatura.
Anche l'osservazione dei collage del Profesore è un'esperienza che ha qualcosa di impalpabile e spaventoso. Anche nei suoi incredibili collage mescolava carne e acciaio colorati, meccanismi planetari e un senso onnicomprensivo di misteri macro- e microcosmici. Ballard, Dick, Gianluca Lerici, Shiva Danzante sulle ceneri dell'Universo.
Eppoi i quadri.
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'Mandala psichedelici' che comprimono le circonvoluzioni cerebrali straniando/straziando l'anima con visioni angelico-demoniache.
Il libro si conclude con una parte dei numerosissimi messaggi di stima e affetto - e anche dolore per la perdita - per il Professore, arrivati su www.profbadtrip.org.
Questo libro è così prezioso che è difficile spiegarlo...


 
 
Robot - prof. Bad Trip
 
 
 
 
 
 

Riproposte 2 - Guida ragionevole al frastuono più atroce

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Guida ragionevole al frastuono più atroce

di Lester Bangs

saggio, brossur. 440 pag.

traduzione di Anna Mioni



 
€ 16,50

 
Minimum Fax


"il punto è che, come dice Richard Hell, il rock è un'arena in cui uno scende per divertirsi e tutto questo cianciare di autenticità è solo un mucchio di stronzate"




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[articolo scritto originariamente nel 2005]
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Lester Bangs, 1948 - 1982
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"Cioè, bisogna essere pazzi per non arrabbiarsi: 
ci stanno divorando, anima e corpo, e nessuno combatte.
In effetti nessuno se ne accorge, praticamente,
ma se ascoltate i poeti lo sentirete,
e vomiterete la vostra rabbia"
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Finalmente posso leggere in una buona traduzione (alcuni de)gli scritti del più Grande Critico Musicale Rock. E' morto da ventitrè anni, quindi il titolo gli calza a pennello. Nel Rock se sei vivo hai, come dire, qualche punto in meno rispetto ai morti, che per definizione hanno sempre ragione.
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Anche qui in Italia Lester Bangs è stato un mito in certi ambienti, a dir la verità più per sentito dire che per conoscenza diretta ed effettiva dei suoi scritti. Figurarsi che anni fa l'ho persino citato pur senza averne mai letto una sola riga (se non trafiletti corsivati riportati da riviste/fanzine più "contro" che "culturali").
Adesso, grazie alla Minimum Fax, possiamo finalmente farci un'idea di prima mano non tanto su chi era Lester Bangs, ma su come/di cosa scriveva.
.Quattrocentoquaranta pagine di goduria & sofferenza.
Senza un The End che ti fa chiudere il libro con un sorrisetto compiaciuto.
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Questo mio scritto ha la l'unica e utopica funzione di convincere innanzitutto i miei amici rockettari, e poi chiunque legga questo Sito e ami (o creda di amare) il Rock, a sborsare sedici euro e cinquanta per portarsi a casa questo capolavoro, quindi andiamo avanti.
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"Forse questo libro chiede al lettore di essere disposto ad accettare il fatto che il miglior scrittore americano sapesse scrivere quasi esclusivamente recensioni di dischi" dice Greil Marcus nell'introduzione al volume. 
Beh, io non conosco tutti gli scrittori d'America - e comunque non li leggerei in lingua, ma tradotti - ma così, a naso, credo di essere, oggi come oggi, d'accordo con quella pomposa e senz'altro pubblicitaria affermazione.

Perché quello che c'è dentro questo libro è una delle cose più emozionanti che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni e mi ha sconvolto mica poco. Inoltre ha minato alla base la mia già scarsissima fiducia nella "critica musicale". Ormai già da parecchio tempo la mia lettura di riviste musicali si limita alle sedute al cesso e anche in questo caso molto spesso mi limito a guardare le figure (perché diciamocelo: i fotografi "rock" sono i migliori, altro che National Geographic!).
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E in ogni caso Lester Bangs non sapeva scrivere solo recensioni di dischi.
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Sarà casuale (o sincronico?...) ma proprio qualche settimana fa ho buttato nel cassonetto della raccolta carta tutte le mie riviste musicali; senza nessun astio: l'ho fatto perché mi sono reso conto, in modo del tutto naturale, che non mi serviva a niente continuare a tenerle in casa, e inoltre avevo bisogno di nuovo spazio per i fumetti.
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Torniamo al libro di Bangs. Tutti i suoi scritti parlano della FESTA, che è il Rock (e non, badate bene "il rock" con l'iniziale minuscola). E tutto ciò che, in qualsiasi modo, contribuisce a rendere il Rock un po' meno FESTA è da Lester catapultato direttamente nella spazzatura. Con astio? No: con rabbia e amore, che sono due cosette un po' diverse dall'astio! Alcune delle cose meravigliose di cui questo libro è pieno sono proprio umanità e affetto.
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Un problema, di cui la Minimum Fax (ancora grazie! L'ho già detto? Lo ripeto!) terrà certamente conto, è che questo non è un libro per tutti. Lester Bangs sarà anche stato il Più Grande Scrittore d'America, ma difficilmente puoi coglierne l'essenza se:
1. hai meno di 35 anni (età indicativa) o se
2. non hai una "cultura musicale" (= conoscenza) spaventosa.
Questo non vuole essere un disincentivo all'acquisto e alla lettura del libro, è solo un personalissimo e affettuoso avvertimento. Anzi capovolgo la faccenda e dico che la cosa più bella sarebbe leggere questo libro essendo all'oscuro di tutto ciò di cui parla Lester Bangs e poi (o durante) andarsi a cercare dischi, riferimenti, libri, resoconti di esperienze e quant'altro serva a comprendere. 
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Anche se tutta la "comprensione" del mondo difficilmente potrà far vivere certe sensazioni se non di seconda mano... ma questo è un limite comune a un sacco di altra roba, giusto? Ci sono ancor oggi ragazzini che si appassionano ai Beatles, che si sono sciolti trentasei anni fa e due dei quali sono morti per sempre. (Conosco la frustrazione, oh se la conosco)
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D'altronde non è la musica, e il Rock quindi, foriera di emozioni eterne? Certo che sì.

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Lester Bangs era evidentemente una persona che a pochi anni di età aveva già maturato una cultura (e non aggiungo "musicale" perché la sua era una cultura a tutto tondo, di quelle che oggi sono così poco di moda) semplicemente spaventosa e il fatto che fosse un tossico strafatto ("mai di eroina", specifica Greil Marcus) non solo non inficia minimamente lo splendore dei suoi scritti, ma probabilmente essi stessi sono in parte il frutto dei suoi abusi di ogni sostanza stupefacente disponibile sul pianeta ai suoi tempi (tranne l'eroina, appunto). 

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E forse aveva anche doti profetiche, leggere il libro per credere. Un solo, piccolissimo esempio: da dove sono arrivati gli unici artisti Rock che hanno cercato di impedire che questa musica sprofondasse nell'anti-creatività (e diventasse quindi un ulteriore strumento di oppressione), che hanno davvero detto "qualcosa di nuovo"? Esatto: dalla Provincia. Ma questo è solo e proprio un piccolissimo esempio dell'esattezza delle acute e acide profezie di Lester Bangs.

Non l'avevo ancora detto con precisione: Lester Bangs è morto nel 1982 a poco meno di trentacinque anni, Live Fast, Die Young, appunto, giusto per mettere in pratica le aspirazioni giovanili di quella mummia di Pete Townshend (vivo e vegeto, e va bene così) o le più tarde e coerenti filosofie di un Darby Crash (e se non sapete chi era, mi spiace per voi).
Musicalmente non si è perso granché. Difficilmente un disco uscito dopo il 1976, eccezion fatta per certi capolavori del "punk rock" (o poco altro) , è "storico" o "imperdibile".


Ritorniamo al libro.
Questo libro fa crescere e quindi fa bene; certo: "bene" come tutte le cose che, facendo crescere, fanno anche soffrire, provocano dolore... ma è un dolore sano, ancorché angoscioso, perché evolutivo.

E' un libro pieno di una scrittura pura, di una purezza commovente ed emozionante, sia quando Lester Bangs parla di Lester Bangs ("John Coltrane E' Vivo E Lotta Insieme A Noi", p. 164) sia quando, pur continuando Lester Bangs a parlare di Lester Bangs, tratta di Musica (ad es. qualsiasi cosa riguardi Lou Reed), mai comunque disgiunta dalla Vita. Purezza commovente anche quando (sempre!) anela a una distruzione salvifica, catartica, drogata di vita e di consapevolezza della realtà. 
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Purezza in un certo modo integralista che non piacerà agli integralisti veri, quelli che per ignoranza, incapacità o volontà masochistica ascoltano "un solo genere" e a quelli che si sentono così democratici da riempirsi ogni giorno la bocca con cose del tipo "i gusti vanno rispettati", ma non si degnano mai di spiegarmi cosa intendono per "gusti" e tantomeno per "rispetto". 

Insomma, è un libro magnifico e potente, che suscita anche rabbia: oh se ne avranno di rabbia i fans dei Led Zep e di Bowie [e io mi ci ficco in mezzo, anche se rabbia non ne ho provata molta, giusto un po'...ma io mi fregio di essere, musicalmente, molto poco integralista] e, soprattutto, è un libro pieno di scrittura meravigliosa che fa scomparire in un lampo molti dei cosiddetti Gggiovani Scrittori - alcuni dei pezzi Lester Bangs li ha scritti a poco più di vent'anni, altro che "talenti gggiovanili"!.

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Lester Bangs aveva doni rari, quello di saper scrivere in modo stupendo, di capire davvero il Rock (e la Musica in generale), di mostrare crudelmente/crudamente eppure con amore la merda di questo mondo, quindi di capire il mondo.
E' un libro bellissimo: compratevelo, per favore.

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"Siamo tutti costretti a stare su questa terra spesso triste in cui la vita essenzialmente è tragica, ma ogni tanto arrivano preziosi barlumi di bellezza e di gioia di fondo che ricordano a chi li sa cogliere che esiste qualcosa di più grande ed elevato di noi. E non parlo delle vostre divinità in putrefazione, parlo di un senso di miracolo rispetto alla vita stessa e della sensazione che esista un fattore di redenzione che uno ha almeno il dovere di cercare, prima di crepare per cause naturali." (Lester Bangs, 1978)
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QUI si può scaricare l'introduzionedi WU MING 1 al libro di Lester Bangs
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QUI un mio vecchio scritto sull'edizione a fumetti di Lamette Comics

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Lester Bangs, Patti Smith, Lou Reed



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Riproposte 3 - Please Kill Me

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Please kill me
Il punk nelle parole dei suoi protagonisti
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di Legs McNeil e Gillian McCain

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632 pag.


per l'edizione cartacea: qui

e-book euro 6,99


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Baldini&Castoldi

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"I poeti della St. Mark sono così falsi e costruiti, scrivono roba del tipo "Oggi alle 9.15 mi sono fatto di speed insieme a Brigid..." Sono davvero bravi a mettere quella roba in una poesia, però se Jim Carroll arriva in chiesa drogato e vomita, questo non è poetico per loro - non è figo. Finché ci puoi giocare nelle tue poesie, tutto bene, ma se ci devi fare i conti davvero, allora le cose cambiano - non vogliono averci niente a che fare [...] Voglio dire, questo è un poeta vero. E' un tossico. E' bisessuale. Si è fatto scopare da qualsiasi genio, uomo o donna che sia, di tutta l'America [...] Lui vive le cose fino in fondo [...] E' un autentico relitto. Ma quale grande poeta non lo è stato?..." (Patti Smith - da Please Kill Me)
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Genio & sregolatezza.
Seicentotrenta pagine di Genio & Sregolatezza. In dosi spesso eguali, talvolta dipendenti dalla quantità di denaro anticipata dalla casa discografica di turno.
Seicentotrenta pagine che si bevono d'un fiato, perché le faccende di genio, ma soprattutto di sregolatezza, affascinano come pochi altri argomenti al mondo.

We Are The Dead
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Please Kill Me è un libro di morti che parlano dall'aldilà. La maggior parte dei geni, piccoli o grandissimi che fossero, cui questo libro dà voce, sono morti. Troppo giovani e troppo poco considerati dalla storia della musica popolare moderna, dove migliaia di giovani e meno giovani imbracciano le loro chitarre senza sapere di chi siano artisticamente figli
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Velvet Underground & Nico (& Andy Warhol)
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Velvet UndergroundFugsMC5Andy Warhol i padri putativi. Bisogna ricordare che il primo album dei Velvet Underground uscito nel 1966 è uno degli album più influenti - anche a livello inconsapevole - del rock e anche uno dei meno venduti? All'epoca non se li filava nessuno o quasi.
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E così fu per gli Stooges, nonostante l'avere in casa - oggi come trent'anni fa - i loro primi tre album (rispettivamente del 1969, 1970 e 1973) equivale ad avere quanto basta per poter dire: "ho la discografia del rock"

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The Stooges
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Idem per i New York Dolls, esaltati dalla critica con circa vent'anni di ritardo, scioltisi anzitempo per fame nera (e dipendenza da ogni tipo di droga pesante, s'intende).

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Please Kill Me, seicentotrenta pagine di musica selvaggia, delirio, succo di vita e gas della putrefazione, vale centomila "enciclopedie (?) del rock", quelle compilate in ordine alfabetico da critici che non sanno neanche quale sia la nota della prima corda di una chitarra accordata in La. 
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Si tratta, nel concreto, di interviste, dichiarazioni, chiacchierate raccolte dagli autori del libro - uno dei quali fondatore della mitica fanzine americana Punk - estratti con criterio e cognizione di causa da oltre cinquecento ore di registrazioni.
Vive voci di musicisti, groupie, discografici, artisti, drag queen, roadies, giornalisti, fanzinari. Vive voci sì, anche se molti di loro sono morti.


The New York Dolls
. In questo libro non esistono i "si dice...""pare che...""narra la leggenda..."; non è una raccolta di pettegolezzi, men che meno un'agiografia di rockstars imbolsite. E' un libro vivo la cui accuratezza è, come in ogni altra cosa viva, puramente soggettiva. Non per questo meno "vera".  

Si parte dall'America dei primi Anni 60, e le parole di quei ragazzi e ragazze di allora valgono più di un freddo trattato sociologico e fanno capire molte cose sul perché accaddero certe cose, e non mi sto riferendo solo alla musica o al rock in particolare.
Ragazzi e ragazze circondate da muraglie di inadeguatezza, noia, oppressione, bigottismo, voglia di gridare la propria arte - qualsiasi essa fosse - e utopie fallite. Miserevolmente fallite. 
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The Ramones

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"I Ramones dissero: "Dovete soltanto suonare, ragazzi. Uscite dai vostri scantinati e mettetevi a suonare. E' così che abbiamo cominciato noi. [...] Non dovete migliorare, basta che andiate là fuori, siete bravi quanto noi. Non aspettate di essere diventati più bravi di adesso, come farete a capire quando è il momento? Andate fuori e suonate" [...]." (Danny Fields - da Please Kill Me)

Poi, un bel giorno, arrivano i Ramones e la musica cambia.
L'intera faccenda del rock, per un breve, intensissimo momento, cambia. Poi sarà tutto inglobato e reso il meno offensivo possibile, ma per un po' la rivoluzione ci fu davvero. Ma intanto ci sono i Ramones, di cui seguiamo la storia piena di delusioni, successi sfiorati, catastrofi personali.

I Ramones che nel '76 sbarcano in Inghilterra e danno danno il colpo di coda decisivo a quello che stava per nascere lì e che chissà se sarebbe nato con le stesse caratteristiche senza di loro. Tutti i giovanotti del futuro fenomeno punk inglese sono alla Roundhouse, quel 4 di luglio, a vedere quei quattro americani vestiti da teppisti sparare un set di 50 minuti alla velocità della luce. Assorbono e imparano. Perché gli inglesi son fatti così: aspettano gli americani, li studiano, ne rielaborano "all'Inglese" la loro lezione, e spesso ne diventano addirittura i maestri. Beatles docet.

"Agli inizi del punk [...] tutti pensavano che fosse una orrenda faccenda di destra e filo-nazista - violenta, razzista, contraria a tutto ciò che c'è di buono nella vita." (Mary Harron - da Please Kill Me)


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The Sex Pistols

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Ed è così che i Sex Pistols sbarcano in America, "per rubare un po' di dollari agli yankees" e far da cattivi maestri ai loro stessi cattivi maestri. Direttore: quel tale Malcolm McLaren, già manager delle New York Dolls oramai in piena decadenza (e tossicodipendenza). E il punk è già morto.

Almeno così sembrerebbe... solo che i Ramones, ben più dei Pistols, nei loro interminabili tour sold-out (non certo dei relativamente pochi dischi venduti) si lasciano dietro una scia di ragazzini che formano band sapendo suonare giusto tre accordi - e il blues, quanti ne ha, di accordi?... - che faranno sì che il punk non muoia, anzi si evolva in un modo che i maestri non avrebbero saputo immaginare, ma questa è un'altra storia.

Nel frattempo, molti maestri muoiono, talvolta in modi che se non si trattasse di morte si potrebbero definire buffi, più spesso in maniera drammatica. Come quel povero agnello sacrificale di Sid Vicious, tutto tranne che un musicista, tutto tranne che un maestro, solo un ragazzo disperato che ha pagato caro tutto quello che c'era da pagare.

"C'era qualcosa di individualmente apocalittico nel punk - un'apocalisse personale, un indurimento. [...] E l'ambiente dal quale è emerso il punk mi ricorda anche il set del film Blade Runner - uno stile di vita duro, minaccioso, nel quale si sentono i tamburi del destino. Solo che non sai se sono i tamburi del destino o solo qualcuno che canta la sua canzone. Ma il suono di quel tamburo è sempre in sottofondo, incessante." (Ed Sanders, ex Fugs - da Please Kill Me)
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Dead Boys
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Non leggete Please Kill Me se non adorate il rock'n'roll - e il Vero Rock'n'Rollè quello selvaggio e disturbante.
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Non leggetelo se credete davvero che i musicisti si facciano menate del tipo "la suddivisione in generi" o se il suono sferragliante di una chitarra elettrica vi procura fastidio.
Non leggetelo se non vi commuovete all'ascolto di brani che tagliano la mente come lamette arrugginite e non sentite i Tamburi dell'Apocalisse arrivare da qualche parte della vostra anima.
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Orlando Furioso - Febbraio 2007


PLAY AT LOUD VOLUME !!



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[de]Formazione Musicale

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Sempre io, solo un po' più piccolo...


Doveva essere il 1963 o '64, sono sicuro di questo perché l'evento accadde prima della mia orrenda frequentazione dell'asilo dalle suore,nel 1965.
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E' uno dei miei primi ricordi: domenica mattina, le campane della chiesa vicina battono qualcosa (le ore o altro) e in tinello c'è trambusto. Mio padre è arrivato dalla cantina con uno scatolone su cui sono stampati dei bicchieri, equivalente grafico della scritta"fragile".
Mia sorella, allora tredici/quattordicenne - ai miei occhi di quattrenne già una signorina adulta - è visibilmente eccitata. 
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Mi alzo dal letto, entro nel tinello, intravedo lo scatolo coi bicchieri e vengo bruscamente allontanato da mia sorella, che mi ricaccia a letto; le chiedo "Ma cosa c'è in quello scatolone?""Bicchieri!" mi risponde secca, e chiude la porta della camera.
Poco dopo si affaccia alla porta con un enorme sorriso mi dice "Vieni a vedere!" e corre di là: mentre percorro il corridoio a piedi scalzi dal tinello arriva una musica, a volume abbastanza alto.
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Sino a quel momento nulla di strano: a casa mia si vive con la radio accesa dal mattino alla sera. La sera la si spegne solo per accendere il televisore, entrato in casa mia insieme a me neonato: l'apparecchio televisivo è la moneta di scambio col quale mio padre baratta il mio nome con mia madre... "Non lo chiamerai "Orlando", che poi lo prendono in giro!""Ti compro il televisore""...Oh beh...chiamalo pure come ti pare!". Ecco qui.
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Arrivo in tinello accolto dai grandi sorrisi di mia madre (all'epoca era ancora capace di sorridere, evidentemente), mio padre, mia sorella e mio fratello; al centro del tavolo troneggia un coso su cui gira un disco grande e nero... papà ha comprato il giradischi!
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Questoè ciò che esce dal piccolo altoparlante collocato sul coperchio removibile del giradischi:
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E' la canzone Al Cavallino Bianco dell'eponima operetta in 3 atti di Ralph Benatzky su libretto di Hans Muller-Einigen e Erik Charell e testi di Robert Gilbert.
In realtà quella da me ascoltata quella mattina del 1963 o 1964 su quel magico e immenso giradischi era la versione col grandissimo Paolo Poli (mi spiace, non l'ho trovata in rete).

Certo, un ricordo di circa 54 anni fa può non essere precisissimo, però nella mia testa tutto pare chiaro e limpido: che enorme emozione essere lì, tutti intorno al tavolo a guardare il giradischi e ad ascoltare la canzone...

Subito dopo mio padre, unico al mondo che potesse toccare il marchingegno, cambiò disco e da una copertina di cartone pesantissimo con stampata sopra una foto in bianco e nero virata in azzurro che raffigurava due donne vestite "all'antica" trasse un disco nero con l'etichetta rossa; poggiò la puntina e dopo qualche gracchiata partì questa canzone:
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Si maritau Rosa, canzone tradizionale siciliana, ovviamente adorata da mio padre e da quel preciso momento adorata anche da me.
Eccole le prime due canzoni ascoltate su primo giradischi della mia vita, canzoni da subito e per sempre amate e che ancor oggi mi emozionano.
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Per quella domenica l'ascolto si limitò a quegli unici due LP (allora si chiamavano certamente in altro modo, non so quale; il termine"padelloni"è attestato in casa Furioso da non prima del 1967), lati A e B ripetuti ad libitum fino a sfinimento.

Nonostante la modestissima situazione economica della mia famiglia - mio padre da solo manteneva cinque persone con uno stipendio con cui oggi vivrebbe malamente una sola persona - l'acquisto del giradischi inaugurò il periodico, mai cessato acquisto di dischi.

La radio: un cenno
Come dicevo poc'anzi la radio in casa mia era perennemente accesa, ma dati i tempi l'offerta musicale non era delle più attraenti; tant'è che sino ai primi Anni 70- cioè fino all'inizio della trasmissione Hit Parade condotta dal grande Lelio Luttazzi - i miei ricordi musicali radiofonici si limitano a qualche sigla; a questa in particolare:
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Mai stato un patito di calcio, ma questa sigla la trovavo e la trovo semplicemente meravigliosa! [E' una cover di un brano di Burt Bacarach, A Taste of Honey, coverizzata anche dai Beatles nel loro primo album]
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I dischi
Non so immaginare al prezzo di quali sacrifici cominciarono a entrare dischi in casa mia, più o meno regolarmente. Datosi che la fonte di guadagno era mio padre, per un po' di tempo fu lui a decidere gli acquisti. Dopo i due LP di cui sopra, il primo 45 giri che entrò in heavy rotation in casa mia fu questo:
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Eviva la radio a galena, vecchio successo del meraviglioso Quartetto Cetra, adorato - sia il complesso che il brano in questione - da mio padre e conseguentemente da me.
La "quota tre", due LP e un 45 giri, durò pochissimo perché mio padre, sincero benché incolto amante della musica, continuò a comprare dischi. E subito dopo il Quartetto Cetra arrivò lui, Natalino Otto: il primo uomo di cui, meno che cinquenne, mi presi una specie di inconsapevole cotta, tanto ero affascinato dalla sua persona, oltre che dalle sue canzoni.
Quella qui sotto è la sua voce e la canzone che canta fu il suo primo 45 giri ad entrare in casa mia:
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La produzione discografica di Natalino Otto era davvero sterminata e diversi altri suoi 45 giri furono acquistati da mio padre, ma questa canzone - Ho un paio di storie da raccontar - fu la prima ad entrare in casa e nella mia testa e ancora oggi ascoltandola quasi mi commuovo.
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Arrivano i BEATLES! (finalmente!)
L'acquisto di dischi, prevalentemente 45 giri, continuò lento ma costante, e nel frattempo, intorno al 1965-1966, la radio italiana comincia timidamente a trasmettere qualche brano di musica "moderna", cioè non necessariamente legata al folk o alla musica classica o alle canzonette allora in voga.

Non so se sia il mio sconfinato ed eterno amore per i Fab Four a fabbricare nella mia testa questi ricordi, ma mi pare che dal 1965-66 in poi anche l'italica radio nazionale cominciò a trasmettere qualche loro brano.
Sta di fatto che il loro nome, complici le riviste musicali che le amiche di mia sorella le prestavano (Ciao Amici e Giovani soprattutto), divenne abituale e molto pronunciato in casa Furioso.
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Ascolta QUI "L'arrivo del Beatles in Italia".
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John, Ringo, Paul e George a Milano - 24 Giugno 1965
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Ricordi deformati o meno sono però sicurissimo che intorno al 1966 in casa mia circolino già dei quaderni protocollo ("da computisteria", credo si chiamino) zeppi di ritagli tratti da riviste in cui i Beatles sono il soggetto maggiormante presente: quei quaderni - scrap-books la loro definizione posteriore - erano religiosamente compilati con forbici e scotch o colla da mia sorella, già accanita fan dei Quattro di Liverpool.

Oltre agli scrap-books, preziosissima fonte di sogni e informazioni per il sottoscritto, cominciarono le famigerate - e mai abbastanza benedette - "Feste in Casa" che consistevano in festicciole a base di cocacola, fanta, patatine e giradischi: amiche, amici e compagne/i di scuola arrivavano a casa di chi indiceva la "festa" portando bibite, dolci e soprattutto dischi. Le "feste" si svolgevano sotto supervisione dei genitori, che mai avrebbero lasciato da sola cotanta gioventù.
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Anche mia sorella ebbe finalmente il permesso di indire qualche "festa in casa": in questo modo le mie conoscenze musicali decuplicarono, centuplicarono!
Cominciò anche il prestito dei dischi.

Il primo brano dei Beatles di cui ho coscienza - voglio dire: quello che ricordo come "ah, questa dunque è una canzone dei Beatles!" con conseguente immediato amore è questo:
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Sono sicuro che I Should Have Known Better non sia il primo loro brano che io abbia mai ascoltato: è "solo" il primo di cui ho coscienza, quello che ho identificato come l'inizio della nostra storia d'amore, la storia tra i Beatles e me (storia d'amore che continua tutt'oggi senza il minimo segno di cedimento, devo dire).
Insomma, questa non è la mia "canzone preferita" dei Beatles, d'accordo?

Per concludere almeno temporaneamente il capitoletto"Feste in Casa" - nelle quali, è bene ricordare, io ero ospite tutt'altro che gradito, visto che ero un moccioso in mezzo a pre-adolescenti con gli ormoni a mille... -  dirò che anche a causa di queste festicciole mio padre rinunciò, credo molto a malincuore, ad avere il controllo totale sul "suo" giradischi.
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Torino 
Alla fine del 1967 la mia famiglia si trasferisce a Torino.
Io ho 7 anni, è autunno, piove e c'è la nebbia, il cielo è grigio e io odio Torino con tutto me stesso; mi manca da morire la mia città natale e il suo verde, gli amichetti e i compagni/compagne di scuola, la mia maestra, il parco giochi.
Non posso nemmeno provare a spiegare il trauma, la tristezza, il dolore che quel trasferimento mi provocò. E infatti mi fermo qui per non scadere nel patetico. Diciamo solo che da quel momento divenni un bambino un po' triste.
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Una cosa buona Torino me la portò: mia sorella, ormai diciottenne, trovò lavoro presso il più grosso e importante negozio di dischi della città! 
La musica, declinata nelle sue accezioni diciamo così più accessibili, è sempre stata una costante nella mia famiglia: ogni componente della famiglia Furioso è intonatissimo, anche se soltanto io ho anche il dono di avere una bella voce.
Il primo ragazzo di mia sorella, per dire, fu il bassista del primo complesso beat della mia città natale e portava un ciuffone alla Elvis e un giubbotto di pelle; mio fratello sin da piccolo cantava nel coro della chiesa.
Io sognavo i Beatles.

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Dicevamo che mia sorella, rinunciando a un posto sicuro in una grande azienda automobilistica cittadina (ah ah ah...) e facendo conseguentemente infuriare mio padre, preferì andare a lavorare come commessa nel suddetto negozio di dischi.
Ciò significò dischi con fortissimi sconti, dischi come regali di natale e compleanno, dischi prestati e ricevuti in prestito come piovesse! In casa mia, musica sempre, giradischi fumante e un piccolo Orlando sempre più avido di musica.

Intanto arriva il benedetto 1968 ed ecco ad esempio uno dei 45 giri che portò a casa mia sorella e che mi impegnò in interminabili, deliziati ascolti:
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Crimson and Clover, grandissimo brano di Tommy James and the Shondells che ebbe un clamoroso successo mondiale compresa una dignitosa "traduzione" in italiano dal complesso di Patrick Samson, cantante di origini libanesi amatissimo qui in Italia in quegli anni.
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Dei complessi italiani il mio preferito - lo è tutt'oggi, anche se non esistono più e, così come per i Beatles, due componenti storici non sono più tra noi - era questo:


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Si tratta dell'Equipe 84 e se non conoscete questo brano - Ladro - per favore ascoltatelo e capirete perché venivano, meritatamente, chiamati "i Beatles italiani"

E a proposito di Fab Four ecco con quale 45 giri venne a casa mia sorella un giorno di sole (me lo ricordo:c'era il sole!) di quell'incredibile 1968: 

The Beatles - Hey Jude, 1967 (Lennon - McCartney)
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Pazzesco Paul coi baffi! Mi turbò i sogni per un po', ma il mio innamoramento per lui non venne minimamente scalfitto da questo nuovo accessorio peloso. 
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La mia "formazione musicale" continuava quotidianamente, imperterrita e senza cedimenti: mi rendevo bene conto di avere qualcosa di diverso rispetto ai miei amichetti e amichette di allora e anche a scuola ero l'unico, che io sapessi, ad interessarmi di musica.
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Certo, non è da tutti avere la sorella che lavora nel più grande negozio di dischi della città e che ogni settimana torna a casa con un "padellone" o uno o più 45 giri; anche di questo mi rendevo conto e ammetto che provavo un po' di dispiacere per tutti gli altri bambini che conoscevo che erano totalmente ignari della bellezza e della ricchezza della musica... o meglio, di una parte della musica, la parte più pop e "commerciale", visto che in casa ancora per un bel po' non sarebbero girati dischi di classica o di jazz o di altre forme musicali...

Ecco un altro degli innumerevoli 45 giri che entrò in casa quell'anno:



Solo qualche anno dopo seppi che questa magnifica Mighty Quinnincisa dalla Manfred Mann's Earth Band ed entrata in classifica in Italia proprio quell'anno era una cover di colui che sarebbe diventato uno dei miei idoli supremi insieme ai Beatles: Bob Dylan.
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Altro singolo indimenticabile che entrò in casa mia, oltre che in classifica in Italia (ricordate la Hit Parade presentata alla radio ogni settimana dal grandissimo Lelio Luttazzi di cui poco sopra?) fu questo:
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Sì sì, ma certo che sono anche un fan degli Stones, non crederete mica a quelle baggianate sui giornali (dell'epoca), vero? Stones e Beatles erano molto amici, oltre al fatto che hanno reciprocamente collaborato gli uni sui dischi degli altri molte più volte di quanto si potrebbe immaginare! Comunque conoscevo e amavo già i Rolling Stones da tempo e questo non fu certo il loro primo singolo a girare in heavy rotation in casa Furioso. En passant ricordo che avevo comunque solo 8 anni, le inevitabili, numerose lacune musicali verranno colmate solo qualche anno dopo.

Teoria & pratica: un cenno
Questa divorante passione musicale mi portò già in tenerissima età ad avere il desiderio di imparare a suonare uno strumento. Oltre a un'intonazione perfetta e a una bella voce (quando canto), le divinità preposte mi hanno dotato anche di un orecchio decisamente sviluppato e di un altro singolare "dono": a qualsiasi strumento musicali io mi accosti, dopo poco ne so trarre dei suoni, delle melodie, dei brani. Cioè, non ho mai provato un sitar - ahimé - ma sono presuntuosamente e ragionevolmente convinto che se ne avessi la possibilità, dopo poco riuscirei a suonicchiarlo.
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Ma le divinità danno, le divinità tolgono... e in cambo di questo dono hanno preteso indietro la mia costanza. Ciò significa che tutte le lezioni cui mi hanno mandato da piccolo, e tutte quelle che ho frequentato da adulto, si sono risolte in un quasi-nulla di fatto: tutte invariabilmente interrotte dopo poco, nessuna voglia di studiare la teoria (ancora oggi ho una tremenda difficoltà a leggere la musica...) né di esercitarmi.
Quindi suono discretamente alcuni strumenti, ma tutti "a orecchio", non ne sono mai diventato "padrone assoluto", come un Vero Musicista dovrebbe essere.
Pazienza, non si può avere tutto. (...merda!...)


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1969
Il 1969 merita un discorso a parte perché fu l'anno in cui comprai "autonomamente" il mio primo "padellone" (=long playing,"microsolco a 33 giri"); autonomamente per modo di dire: l'album costava pressappoco 2.500 lire e io ne misi 1000 (il resto generosamente ce lo mise mia sorella).
Vedremo sotto di che album si trattava e di come cambiò la mia vita.
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Il 1969, oltre al fatto di essere fondamentale per la musica Rock a causa dell'enorme numero di incredibili, splendidi album che uscirono quell'anno (alcuni dei quali conobbi, gicoforza, soltanto qualche anno dopo: non è che mia sorella avesse un negozio di dischi, ci lavorava soltanto!), fu fondamentale per me perché mio fratello cominciò a "uscire molto di casa" e a frequentare altri giovani "hippy/ribelli" e quindi in casa cominciarono ad arrivare gli album, i "padelloni", interi LP che, quando mio fratello non c'era, io potevo ascoltare e riascoltare fino ad impararli a memoria.
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Cosa che sono certo non capitava a moltissimi altri piccoli novenni italiani; infatti ero completamente solo in questa mia sviscerata, totalizzante passione. Non avevo problemi di generi, mi piacevano anche Patty Pravo, i Camaleonti, i Dik Dik, i Nomadi, i New Trolls e mille altri complessi e solisti italiani e, almeno per questi ultimi, tentavo disperatamente di coinvolgere le amichette e gli amichetti di scuola e del cortile, ma niente, zero totale. A nessuno/a di loro fregava niente della musica, di qualsiasi musica.

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 Ecco un esempio di cosa "mi entrava in casa" nel '69!!!...
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Cercavo di parlarne con mia sorella, ma lei - pur essendo a sua volta molto appassionata - era stanca per il lavoro e aveva ben altri problemi (uno su tutti: mio padre) e non era molto propensa a parlare con me, anche se ogni tanto, raramente, mi accontentava. Ma alla fine risultava che io - grazie agli LP che prestavano a mio fratello - ero più informato di lei. Quindi niente, solitudine totale.
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Cose successe nel 1969
I Beatles fanno uscire il loro penultimo album: Abbey Road.
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Alla televisione italiana trasmettono, doppiato nell'italica lingua, Tutti per Uno ossia A Hard Day's Night, il primo film dei Beatles, per la regia di Richard Lester..
Al cinema Fortino, poche centinaia di metri da casa mia, proiettano "007 al servizio segreto di sua Maestà": non mi frega assolutamente niente di James Bond - cazzo, non ho ancora 10 anni! - ma quella domenica con la casa piena di parenti e una noia sconfinata mio padre mi accorda il permesso di andare al cinema da solo (poche centinaia di metri, come detto sopra) e mi da i soldi per il biglietto. Entro allo spettacolo del primo pomeriggio, esco tirato per un orecchio dallo stesso uomo che mi ha dato i soldi per il biglietto all'inizio dello spettacolo serale. 
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Perché?
Perché tra una proiezione e quella successiva c'erano quelli che oggi chiamiamo "i trailer" e uno di quei trailer era del film di animazione Yellow Submarine!
Un cartone animato - manco a dirlo, stupendo!, senza i Beatles, ma con le loro musiche.
Ecco, io per vedermi tre volte quel trailer sono stato trascinato a casa per un orecchio da un padre preoccupato e furibondo. Ma ne valse la pena, eccome!

p.s. Yellow Submarine potei vederlo solamente diversi anni dopo, ma il trailer italiano lo so ancora a memoria!
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Il Mio Primo Padellone
Come dicevo più sopra - sì, lo so che non state leggendo tutto di seguito questa infinita tiritera, ma io fingo che lo stiate facendo e che quindi capiate tutti i riferimenti, che invece probabilmente sono tutti solo nella mia testa - nel 1969 compro il mio primo album: si tratta di Abbey Road dei Beatles, per incisoil mio album preferito in assoluto da sempre e per sempre. Anche se non l'aveste mai ascoltato - e mi dispiace davvero tanto per voi - la sua copertina la conoscete senz'altro. Vi lascio un aiutino:
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Dire che quell'LP mi ha cambiato la vita non è esagerato. Me l'ha cambiata in modi che potrei provare a spiegare e in modi che non riuscirei a spiegare nemmeno se avessi il dono della telepatia. Facciamo che non spiego niente. Facciamo che se mi volete anche solo un po' di bene vi procurate l'album (sul Tubo c'è tutto quanto completo), ve lo ascoltate tutto e basta; io sarò felice e prometto che non vi chiederò mai più nulla.

Hit Organ Bontempi!
Nel 1969 mi viene anche regalata la mia prima tastiera:
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l'Hit Organ Bontempi, fonte di infinite ore di creatività e composizioni che non sentirete mai, mai! AH AH AH!!!
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Anche se era"solo un giocattolo" ci ho passato su infinite ore e ci ho composto un sacco di canzoni - che, appunto, non sentirete mai - e comunque ha rappresentato il mio primo approccio diciamo così "diretto" alla musica-non-solo-fruita, il mio primo, se vogliamo, approccio "da musicista". 
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Vero: prima dicevo che non sapendo leggere/scrivere la musica non sono un Vero Musicista, ma in fondo che vuol dire "vero musicista"? Anche suonare a orecchio è pur sempre suonare e - giusto per ricordarlo - nessuno dei Beatles sapeva leggere o scrivere musica. Sia chiaro che per quanto vanitoso non mi sto certo paragonando alle Quattro Divinità della Musica. Musicista è chi fa musica, in molteplici modi, compresa il suonarla e comporla senza conoscere la Teoria Musicale. Tiè!
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Nel 1970 i Beatles si separano.[E non fu certo "colpa" di Yoko Ono]

Ricordo ancora perfettamente mia sorella che torna a casa dal lavoro e guardandomi con aria angosciata (non sto "romanzando") mi dice: "Lo sai che i Beatles si sciolgono?..."...
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Ci misi un bel po' di mesi a rendermi realmente conto della cosa. Ero solo ancora un bambino che aveva nei Fab Four una delle ragioni di vita [p.s. pochissimo tempo dopo provai sentimenti simili per altri Quattro, altrettanto Fantastici, benché non reali: sarà un caso?...], ero un fan, piangevo e ridevo e sognavo e fantasticavo con le loro canzoni (lo faccio ancora, d'altronde), quindi il fatto che improvvisamente non esistesse più la mia "Cosa" preferita non fu né indolore né rapido.
Anche i telegiornali ne diedero notizia, ma io per mesi e mesi continuai a sperare che ci ripensassero. Mi faccio tenerezza da solo, non so a voi.
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Guarda caso, da quel momento, meglio: da quell'anno, cominciano a girare per casa anche tutti gli altri album dei Beatles (fino ad allora, praticamente solo 45 giri).
Ma soprattutto, a partire da quel tragico scioglimento, comincia una nuova epoca musicale per il sottoscritto.

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Ma magari per ora ci fermiamo qui e continuiamo nella seconda puntata, ok?




bonus track: uno dei miei ultimi gig, qualche anno fa...





p.s. ....e no: i Beatles non facevano solo "canzoncine"....




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Tomàs...

Breve storia della letteratura a fumetti

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Breve storia della letteratura a fumetti
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di Daniele Barbieri
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QUI sito di Daniele Barbieri
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in edizione cartacea pag. 200
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Rispondendo a delle gentili domande fattemi da David Padovani per Lo Spazio Bianco, per un interessante articolo-intervista che andrà online "a puntate" - la cui prima parte potete leggere qui - con la nota simpatia e amore per il genere umano e in particolare per il mondo del fumetto che mi contraddistinguono, dicevo più o meno che aprire un blog scrivendo quattro cazzate sui fumetti e per questo definirsi, peggio: sentirsi "critico"è una cosa che mi provoca senzazioni a metà tra la pena e la ferocia.
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Neanche a dire che ognun* può definirsi e "sentirsi" quello che gli/le pare; ma in un mondo in cui il relativismo è diventato assoluto, per cui la merda vale uguale come il risotto ai tartufi ed è la mia opinione per cui è la verità assoluta e se sai tre cose più di me sei un fottuto intellettuale hipster e ti bullizzo sui social e i gusti son gusti ecc. ecc., ammettere la propria ignoranza - lavorando almeno un pochino per renderla meno abissale - è un vero atto rivoluzionario.
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disegno di Winsor McCay (1867 - 1934)
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Un modo per rendere la propria ignoranza un po' meno abissale è, ad esempio, leggere i libri di Daniele Barbieri (qui la sua pag. wikipedia per farsi un'idea), una delle pochissime persone in Italia a potersi fregiare a buona ragione del titolo di critico.
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Anzi a dire il vero la definizione di critico è limitante, in quanto Barbieri è intellettuale di vastissima cultura e molteplici interessi [qui il suo sito; qui il suo blog; qui il suo blog di poesia]; docente universitario, la sua produzione saggistica è molto ampia e sempre di altissima qualità e il suo interesse particolare per il Fumetto è testimoniato dai moltissimi libri, articoli, saggi, seminari, convegni ecc. cui il nostro ha partecipato o è stato - ed è - il diretto promotore.
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La lettura del suo Breve storia della letteratura a fumetti, oltre a essere stata piacevolissima e ovviamente assai istruttiva, ha avuto l'effetto di riconciliarmi con un genere di lettura che ultimamente sto trascurando un po', e che invece è in grado - e lo sarà sempre - di offrirmi grandi, grandissime soddisfazioni.
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Dick Tracy di Chester Gould
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Il libro è un agile manuale perfetto per una consultazione rapida, ma ancor più utile a chi non sappia ancora granché sulla "Nona Arte" e abbia l'interesse e la voglia di saperne di più cominciando col farsene un'idea storica di base.
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Per chi invece tutte quelle cose le sa già (o, ehm, dovrebbe saperle...) è un utilissimo - e, ripeto: stra-piacevole! - "ripasso" generale, fonte di infiniti stimoli e di voglia di scoprire o riscoprire storie, autori, autrici, fumetti, personaggi, pubblicazioni...
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Come correttamente anticipa il titolo stesso, il libro è una breve storia, condensa in 200 pagine le informazioni necessarie per avere una visione generale, panoramica del fumetto nel mondo, dalla sua nascita; come Barbieri stesso dichiara nella prefazione:
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"[...] si tratta di una traccia, che ha perlomeno il pregio di mostrare più facilmente, per la sua brevità, la trasformazione che il fumetto ha vissuto in poco più di cento anni di storia."
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Trasformazione è proprio una delle parole chiave che meglio sintetizzano il processo del fumetto dalla sua nascita (1895? tutt* d'accordo?..) sino ad oggi e non disgiunta da ciò è altrettanto interessante la diversità che lo stesso medium ha espresso nelle varie nazioni, nelle diverse culture.
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Steve Canyon di Milton Caniff
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Capitolo dopo capitolo Barbieri ci guida alla scoperta delle trasformazioni e delle diversità che il fumetto esprime continuamente lungo tutta la sua tutto sommato breve storia; le tecniche, sia di scrittura che di disegno che di linguaggio, sono esposte in modo preciso e abbastanza semplice da essere comprensibili anche da chi non ha mai masticato Fumetto e fumetti.
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Strisce, comic-book, underground, manga, historietas, humanoids, valvolinici, "revisionisti"... nessun aspetto del fumetto viene tralasciato e seppure la brevità costringe l'autore a super-sintetizzare in alcuni casi (ad esempio - giocoforza - nell'oceanico argomento "manga"), la panoramica generale resta precisa, dettagliata ed ampiamente soddisfacente.

Gli autori (le autrici, ahimé, sono davvero poche, non certo per volontà di Barbieri...) sono citati quasi tutti e a seconda della loro importanza - che non necessariamente coincide col concetto così labile di "bravura" - viene dedicato loro più o meno spazio. Alcuni degli autori citati non li avevo praticamente mai sentiti nominare [...e ho pure un blog sui fumetti eh...] ed è stata proprio la lettura di Breve storia della letteratura a fumetti a fornirmi il giusto stimolo per andare a (meglio: cominciare a) informarmi per scoprire mille e mille cose per me nuove, tra le quali, primariamente, quella di leggere antichi/nuovi fumetti a me sconosciuti.
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Devilman di Go Nagai
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Ognun* troverà senz'altro modi e motivazioni individuali nella lettura di Breve storia della letteratura a fumetti di Daniele Barbieri, ma personalmente insisto molto proprio sulla questione degli stimoli forniti dall'autore: il linguaggio usato non sconfina mai nell'eccessivamente tecnico (seppure, giustamente, viene prevista la conoscenza di alcuni termini basilari) e per quanto l'ottica del libro sia quella dello studioso e del divulgatore di conoscenze che sono anche tecniche, traspare facilmente la passione che anima Barbieri per l'argomento trattato; passione che - senza mai scollegarsi dalle conoscenze tecniche, ossia dalla storia del fumetto, che è l'argomento del libro - si trasferisce al lettore/lettrice, fornendo così non tanto nuovi punti di vista, ma alcunistrumenti in più per acquisire autonomamente eventuali nuovi punti di vista.
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Ampio spazio - direi giusto spazio, vista l'importanza della "scuola italiana" nell'intero mondo del fumetto - viene dato al fumetto italiano e/o di autori/autrici italiani: non c'è corrente, filone, "genere" che non venga come minimo citato; ma più generalmente la "scena" italiana viene analizzata con attenzione e ricche, per quanto sintetiche, analisi.

Jeff Hawke di Sidney Jordan
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Le grandi - e innovative - personalità del fumetto italiano sono tutte presenti, dalla "preistoria" dell'italico fumetto sino alle correnti e ai fenomeni più attuali e recenti, anche quando si tratta di personalità oggi quasi dimenticate, se non addirittura completamente sconosciute al grande pubblico, in particolar modo alle giovani generazioni di lettori e lettrici. 
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Non so quanto corretta, ma mi sono fatto l'idea che il lettore/la lettrice ideale di questo libro, o meglio: colui/colei che a mio soggettivo e fallibile parere può godere maggiormente della lettura di Breve storia della letteratura a fumetti di Daniele Barbieri siano proprio quelle persone giovani che pur non essendo così "addentro" al mondo del fumetto, se ne stanno però appassionando.
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Forse questa mia idea nasce dal fatto che durante la lettura del libro mi è capitato spesso di pensare quanto avrei apprezzato una simile lettura (enormemente, credo!) se l'avessi fatta durante la mia adolescenza, quando cioè i miei gusti, la mia sensibilità nei confronti dei fumetti si stavano lentamente formando. Credo che sarebbe stato davvero fantastico!
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Valentina di Guido Crepax
 
Anche l'annosa querelle"fumetto d'autore"vs "fumetto popolare" viene affrontata da Barbieri, che finalmente chiarisce - se mai ce ne fosse stato bisogno - che non esiste un'equazione genericamente funzionante che assegni maggiore o minore "valore" a seconda di quale di queste due (labili, a mio parere) "categorie" venga presa in considerazione. Com'è ovvio tra il "fumetto d'autore" ci possono essere delle opere che valgono davvero poco e nel"fumetto popolare"si possono trovare opere degnissime e importanti. E viceversa, naturalmente.

Il libro termina con una interessante, e direi indispensabile, bibliografia/sitografia, oltre a un indice analitico.

Come ha certamente compreso chi abbia letto sin qui, Breve storia della letteratura a fumetti di Daniele Barbieriè un libro consigliatissimo, anzi indispensabile per chi voglia approfondire, "ripassare", conoscere ex-novo, trovare nuovi stimoli per conoscere meglio, e quindi meglio amare, il Fumetto.

Barbarella di Jean-Claude Forest
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Ultima considerazione: leggendo il libro non è semplice - anzi, è quasi impossibile - capire quali siano i gusti veri e propri, le preferenze personali di Daniele Barbieri e questo a mio parere è un'ulteriore merito da ascrivere all'autore e al libro; questo non perché io ami particolarmente la "neutralità", ma proprio perché lo scopo del libro non è quello di consigliare un'opera invece di un'altra, ma di fornire al lettore/alla lettrice degli strumenti per avere maggiori informazioni e quindi criteri nella formazione di un gusto e di una sensibilità autonomi.
Buona lettura! 
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Natura Morta di Jacovitti




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E così conoscerai l'universo e gli dei

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E COSI' CONOSCERAI L'UNIVERSO E GLI DEI

di Jesse Jacobs


volume unico
brossurato con alette
84 pagine, colori
traduzione a cura di Valerio Stivè


euro 10





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"Questa è la genesi secondo Jesse Jacobs, il suo personalissimo mito della creazione. [...] Un viaggio visivo in un cosmo popolato da divinità capricciose, competitive, ma anche dolci ed empatiche, che litigano tra di loro per il compito meglio riuscito e l’approvazione del loro supervisore..."
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Sarò sincero: un volume intitolato E così conoscerai l'universo e gli deiha su di me un appeal spiegabile con la mia passione - credo nota, in questo luogo - per le Mitologie e le Cosmogonie. Senza scomodare papà Jung, e prima ancora di averlo letto (non necessariamente compreso), ho sempre pensato che ogni Cosmogonia sia, come dire, lecita al limite del reale; o meglio: reale in altre dimensioni, come quella del sogno. O dei fumetti.
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Ho avuto, oltre al titolo, unaltro grosso stimolo all'acquisto e cioè la Casa editrice: Eris Edizioniè a mio avviso una delle realtà editoriali più vivaci e stimolanti del panorama italiano per quanto riguarda la produzione di fumetti, diciamo così, "non necessariamente mainstream"[1].
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Altri volumi di questa Casa editrice torinese sono nella mia wishlist (provvederò quanto prima); certamente uno dei primi titoli che andrò ad acquistare sarà l'altra opera di Jesse Jacobs"Safari Honeymoon", di cui sicuramente vi racconterò non appena mi sarà possibile.
Ora però torniamo al libro in questione.

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E così conoscerai l'universo e gli dei (titolo orginale: By This Shall You Know Him) è la prima opera di Jesse Jacobs che leggo, e non è difficile - anche per me novellino - cogliere i numerosi e potenti riferimenti alla psichedelia(anche guardare il suo fantastico blog aiuta a cogliere i riferimenti agli stati alterati di coscienza); sempre sul suo blog si possono vedere i suoi numerosi rimandi a divinità di vari pantheon... e a forme di spiritualità archetipiche, ancestrali.

Nei suoi disegni, spesso geometricamente assai complessi, si possono trovare [echi di] simboli cabalistici, buddhisti, mesoamericani; senza dimenticare le influenze dell'underground statunitense (Basil Wolverton eMadmagazine per esempio)... 
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Tutto questo è mediato da Jesse Jacobs attraverso uno stile molto personale, moderno e in definitiva originale, che "rimanda a", ma "non somiglia a", crea dei legami psichici ed estetici - per chi voglia lasciarsi un po' andare a una lettura non meramente letterale, ma appunto simbolica - con mondi e situazioni in potenza presenti in ogni tempo e in ogni dove.
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E così conoscerai l'universo e gli deiè una nuova Cosmogonia che si sviluppa prendendo forma davanti ai nostri occhi, tavola dopo tavola; un nuovo Libro della Genesi che parte da nuovi e ancor più capricciosi presupposti rispetto ai Libri delle Genesi conosciuti e meno conosciuti.
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Come tutte le Cosmogonie e tutti i Libri della Genesi - tutti, nessuno escluso, libro di Jesse Jacobs compreso - una delle forze propellenti dell'evoluzione, del cambiamento post-creazione, è la violenza: gli dei, supremi o meno che siano, in fondo non fanno che giocare per sfuggire alla divina noia cosmica, è così in tutte le religioni, "organizzate" o no.
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La prima vignetta del libro, a saperla leggere, ci fa intuire che ci troviamo davanti a una concezione dell'Universo senz'altro più vicina a quella hindu-buddhista che non a quella, diciamo così, monodirezionale giudeo-cristiana cui siamo senz'altro più "abituati". E si può immaginare quanto la cosa mi abbia fatto piacere...
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Dunque Ablavar, Zantek e Blorax - le tre divinità protagoniste di questa nuova cosmogonia - approntano una nuova manifestazione dell'Universo, sotto gli occhi attenti del loro "Supervisore". 
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Se quest'Ultimo ha un atteggiamento che potremmo paragonare a quello dell'Osservatore (Uatu, il testone gigante del Marvel Universe), le tre divinità sono invece molto attive e profondamente diverse tra loro: in ognuna di Esse sono predominanti caratteri che conosciamo molto bene: Blorax sembra amare le sue creature, con le quali appare quasi dolce e affettuoso; Ablavar è più freddo e sperimentale; Zantek invece è un vero pezzo di merda; ma d'altronde le divinità - tutte - sono così, capricciose, sovente abusano vergognosamente della loro (presunta) onnipotenza. E, com'è ovvio, non temono conseguenze per i loro atti mostruosi.
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D'altronde per creare, o ri-creare, un intero Universo, probabilmente sono necessarie tutte le qualità, anche le peggiori. In molte Cosmogonie le divinità non si fanno scrupoli a gettare tutto nella spazzature se i primi tentativi di Creazione non paiono loro venuti "bene".
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[Giusto per fare un esempio: mettere un albero strafico in un giardino bellissimo e proibire agli abitanti di cibarsi dei suoi frutti, senza peraltro spiegarne bene i motivi, sapendo perfettamente che gli abitanti non ce la faranno ad ubbidire e poi per punizione inventare la morte! Ma il pensiero di aver esagerato un attimo con la punizione no, eh?...]
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Insieme agli dei in questo nuovo Universo ci sono anche gli Ani-Mali e gli U-Mani. Nulla di ancora ben definito, ma diciamo che possiamo tranquillamente riconoscerci, soprattutto nella loro idiozia e nella crudeltà di questi ultimi.
In mezzo, forse - le interpretazioni possono essere molteplici, così come i livelli di lettura di
E così conoscerai l'universo e gli dei - delle figure semidivine o semiumane e comunque già coscienti della loro esistenza e della loro "superiorità" sugli Ani-Mali, verso i quali non mancano di esercitare il proprio spietato dominio.
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Cuccioli spaventati - sia Ani-Mali che U-Mani - sgambettano insicuri in un Universo sperimentale ancora in formazione, nel quale le divinità camminano tra gli esseri mortali mentre pazzesche geometrie compaiono nei cieli come spaventose teofanie psichedelico-alchemiche, gigantesche danze chimiche, mimesi misteriose di danze evolutive... sino a giungere a una "fine" che è soltanto però la fine di questo volume, ma è l'Inizio per un intero mondo...
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I disegni potranno essere "semplici", ma semplice non è la lettura di questo libro, né indolore; la Creazione (di una nuova Cosmogonia) non è mai "semplice" né priva di sofferenza. 
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Le senzazioni provate durante la lettura, e la ri-lettura, di E così conoscerai l'universo e gli dei potranno anche risultare particolarmente intense: personalmente posso tranquillamente confessare di essermi commosso in un paio di punti e di aver avuto qualche sensazione di vertigine in determinate situazioni. Mi rendo conto di essere particolarmente coinvolto nell'argomento generale del libro, ma mi rendo anche ben conto che - come dicevo poco sopra - l'esistenza di diversi livelli di lettura mi hanno forse portato a sceglierne alcuni trascurandone altri. Così come sarà per ogni persona, io credo, che deciderà di leggere questo libro.
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Questo magnifico lavoro di Jesse Jacobsè molto lontano, a mio parere, dal concetto (che personalmente non amo molto) di "intrattenimento": la lettura è appassionante e contemporaneamente da il via a una serie di riflessioni che saranno differenti per ogni lettore e lettrice, ma che certamente non mancheranno e non saranno superficiali.
E' un libro che lascia molto, a prescindere dal differente grado di sensibilità che uno/a può provare rispetto agli argomenti trattati.
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D'altronde io credo che un libro che si intitola E così conoscerai l'universo e gli dei non può non attirare l'attenzione di un certo tipo di pubblico, quello più disposto a uscire dai soliti binari dell' - appunto - "intrattenimento". Oltre naturalmente a coloro, e sono molti, che, come il sottoscritto, sono affascinati e attratti da una serie di tematiche che parole come "dei" e "Universo"fanno immediatamente emergere alla mente.

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Un'ultima cosa prima di augurarvi buona lettura: voglio ricordare ancora che QUIci si può deliziare con il molto psichedelico blog di Jesse Jacobs .
Buona lettura.
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Note:

[1] Ho parlato di ERIS Edizioni anche QUI, QUO e QUA
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Hokusai

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HOKUSAI

di Shotaro Ishinomori
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seinen manga
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volume unico
brossurato con sovraccoperta
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pag. 590, b/n
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12 euro
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J-POP



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Salti temporali.
Shotaro Ishinomori(1938 - 1998), il più produttivo, e uno dei più grandi tra i mangaka nipponici - pubblica Hokusai - biografia romanzata del più famoso pittore giapponese - nel 1987; compro il volume della J-POP nel 2012, lo leggo per la prima volta qualche giorno fa (quasi d'un fiato), ne parlo ora.  

Relatività del tempo... 
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Tutte quanti abbiamo visto almeno una volta la riproduzione della più nota, almeno qui in Occidente, opera di Katsushika Hokusai.
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La Grande Onda di Kanagawa
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La vita del grande pittore giapponese, nato nel 1760 e morto quasi novantenne nel 1849, è ampiamente documentata; Shotaro Ishinomori non ha avuto problemi per quanto riguarda le fonti da cui attingere per comporre il suo splendido manga biografico.
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La lunga vita di Hokusai è stata, se non avventurosa, perlomeno assai intensa: come già molti altri grandi artisti, a qualsiasi cultura e latitudine appartengano, la sua arte eccelsa non gli procurò grandi ricchezze e neppure una serena agiatezza: fu anzi quasi sempre povero, visse per la maggior parte della sua vita in stamberghe gelide e raramente fu circondato dal calore di amici o parenti.
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In compenso il maestro ebbe, a quanto pare, altre doti, come quella di essere un focoso e instancabile amante fino a tarda, tardissima età.

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Il sesso è, di conseguenza, una componente piuttosto presente in questo manga: viene mostrato, sempre senza particolare pruderie, molto più spesso nel suo lato più istintuale, animalesco e sensuale che non in quello - forse meno interessante e decisamente più privato - affettivo.
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Anche a nulla conoscere della società giapponese dell'epoca, dalla lettura di questo manga si comprende la diversa concezione del sesso in assenza di un "senso del peccato" di derivazione giudeo-cristiana. Non credo si praticasse il sesso libero nel Giappone dell'era Horeki, ma suppongo che lo si praticasse con meno senso di colpa che in Occidente.
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In ogni modo non è il sesso l'argomento principale di Hokusai, ma la vita e soprattutto la costante ricerca nell'arte che il maestro non abbandonò mai, neppure sul letto di morte.
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Hokusai - al quale dobbiamo il termine manga (anche se con significato diverso da quello attualmente usato) - uomo rude e all'apparenza materiale, non cessò mai di cercare di perfezionare la sua arte e, come il manga di Shotaro Ishinomori ci racconta, desiderava vivere (almeno) sino a cent'anni per avere la minima speranza di raggiungere uno stile veramente personale e innovativo.
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Nel racconto viene furi questa dicotomia molto interessante, anche narrativamente, ossia la consapevolezza della propria maestria, o almeno di un certo grado di essa (i suoi disegni giganteschi non hanno che lo scopo di stupire) e contemporaneamente l'ammissione di essere ancora all'inizio del cammino dell'arte. Grandezza e umiltà uniti insieme a formare una personalità complessa, passionale, collerica, godereccia, sanguigna eppure ferrea nell'affrontare qualsiasi sacrificio in nome dell'arte.
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Shotaro Ishinomori, anch'egli maestro, è bravissimo nel mostrare tutti gli aspetti di Hokusai, rendendo graficamente e narrativamente le età, i periodi artistici, i guai, il furore creativo, le amanti, i litigi (frequentissimi: Hokusai vs The World, proprio...) e, non ultimo, rende meravigliosamente le opere stesse di Hokusai, sfida difficilissima che il mangaka vince a pieni voti. Non era facile rendere nelle pagine di una manga in bianco e nero l'atmosfera dei capolavori di Hokusai, ma l'effetto che provocano le tavole di Ishinomori è a mio parere spettacolare.
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Il materiale umano, come spesso succede coi i genii, è ricchissimo e spesso molto drammatico: la sua continua ricerca della dimensione personale e "perfetta" dell'Arte e il conseguente, continuo cambio di nome (Hokusai adottò moltissimi nomi/pseudonimi nel corso della sua lunga carriera di artista) oltre a - come accennato poco sopra - il suo carattere(accio) volubile e incline all'esagerazione, capace di grandi affetti e di grandi odii, di generosità inaudite e di vendette. Una personalità ricchissima dunque, non certo comune, adatta a essere trasposta in una narrazione.
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Ishinomori sceglie di adottare una gran molteplicità di inquadrature, siamo davvero lontanissimi dai cosiddetti manga a "teste-parlanti": prospettive realistiche e campi cinematografici si alternano a primi e primissimi piani - mai abusati però - e ampie vedute paesaggistiche, sino a inusuali inquadrature dall'alto. 
Anche la scansione della tavola è tutt'altro che "regolare": splash-page, "gabbie" irregolari, vignette di dimensioni variabili, tutto soltanto per la funzione di narrare nel miglior modo possibile.
Obiettivo raggiunto visto che le quasi seicento pagine del manga non solo si leggono senza fatica, ma anzi appassionano sempre più via via che si procede con la lettura.
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Come nella maggior parte dei manga realistici che ho letto nella mia vita, anche in questo Hokusai sono presenti scene in cui i personaggi sono deformati per via dell'ira o dell'ilarità: questa disinvoltura nella rappresentazione grafica "deformed" per accentuare la comicità è una cosa che non smetterà mai di stupirmi, perché lungi dall'interrompere in qualche modo la narrazione, spesso ne accentua invece la drammaticità.
Io mi sono fatto l'idea che, ad oggi, solo i Giapponesi padroneggino questa "pericolosa" tecnica fumettistica senza fare danni; se mal usata potrebbe, credo, distruggere una sequenza, quando non un intero fumetto.

A proposito della relatività del tempo, i capitoli in cui è suddiviso il manga riguardano ognuno un'età del pittore (50 anni, 67 anni, 53 anni ecc.), non proseguono in ordine cronologico, ma compiono salti temporali che, lungi dal creare qualsivoglia anche minima confusione, rendono anzi la lettura ancor più vivace e appassionante.
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La vita di Hokusai, lunga e piena di avvenimenti sia ordinari che decisamente inusuali, è una lettura a tratti persino commovente ed è straordinaria la capacità di Shotaro Ishinomori di penetrare l'animo del grande pittore, di rendere con grande efficacia gli stati d'animo, l'ambiente, i personaggi, la società e la cultura del tempo; i personaggi, anzi, sono vere e proprie persone, umanissime sia nel bene che nel male, alle quali ci si affeziona, nonostante si percepisca l'immensa distanza culturale che ci separa da loro.
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Hokusai è uno di quei, grazie al cielo non rari, manga da consigliare a chiunque, davvero a chiunque, compres* coloro che sui/sul manga mantengono ben saldi e forti i loro pregiudizi; queste quasi seicento pagine scorrono come un fiume pieno di cose e capita spesso che inondino l'anima di emozioni.
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Data la mia abissale ignoranza tecnica non mi sono addentrato, come al solito, nella descrizione della parte grafica di Hokusai, ma c'è ben poco da dire: Shotaro Ishinomori era un disegnatore dotatissimo, capace di trasportare graficamente qualsiasi stato d'animo, paesaggi, scenari, interni, esterni o persone che fossero.
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Prima di augurarvi buona lettura, mi permetto una "nota tecnica" sulla "tenuta" del volume: non so se avete idea di quanto sia impegnativo scannerizzare immagini da un volume di quasi seicento pagine... ebbene i maltrattamenti che la mia copia ha dovuto subire per potervi offrire qualche immagine che non fosse presa dal web sono stati numerosi(ssimi), ma il volume è ancora perfetto!
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La carta forse è un tantino sottile, ma la resa è più che dignitosa nonostante un leggerissimo "effetto trasparenza" (comunissimo in migliaia di altre pubblicazioni, sia chiaro) e d'altronde era impossibile concentrare quasi seicento pagine in un unico volume senza sacrificare un minimo di grammatura.
Credo comunque, onestamente, che 12 euro per un volume del genere sia un prezzo più che economico, anzi azzarderei a definirlo un prezzo davvero basso.
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A differenza di quanto scritto nella prima stesura di questo articoletto, il volume non sembra essere di facilissima reperibilità anche se il sito della Casa editrice lo da come disponibile quindi spero che sarà possibile, per quant* lo desiderino, provare a verificare di persona se ciò che ho scritto finora su questo splendido volume corrisponde a realtà.

Buona, anzi buonissima, lettura!
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Un anno senza te

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Un anno senza te
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Luca Vanzella, testi
Giopota, disegni e colori
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volume autoconclusivo, cartonato
224 pagine, colore
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euro 20
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Bao Publishing

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Niente da fare, non riesco proprio a far morire definitivamente questo blog...
Colpa di produzioni così belle come Un anno senza te, di Luca Vanzella ai testi e Giopota ai disegni.
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Pensando a come definire questa storia e mi è venuto in mente "Realismo Magico"; non perché questa storia a fumetti abbia molto a che vedere con gli scrittori Sudamericani cui normalmente è riferita la definizione, ma perché Un anno senza te pur essendo una storia più che plausibile, direi anzi molto realistica, ha però una collocazione - o meglio è circondata da elementi fantastici, particolari che mettono chi legge - e forse anche chi sta vivendo la storia - in una situazione a metà strada tra la realtà e il sogno...
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Provo a raccontarvi il mio primo approccio a quest'opera e come l'ho vissuta.
Sapevo dell'uscita del volume, avevo letto gli annunci, ma leggendone a decine al giorno e avendo una memoria che fa acqua da tutte le parti non è che questo libro fosse esattamente in cima alle mie priorità.
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Dunque, vado in fumetteria, svuoto la casella (se non sapete che significa, cosa state a fare in questo blog?!?...) e mentre sto per pagare vedo questa pilona di volumi accanto alla cassa.
Ne prendo uno, lo sfoglio, resto colpitissimo - in positivo, in positivissimo! - dai disegni di Giopota e nel frattempo la fumettaia B. mi dice: "Lo sai? Quel volume lo stanno leggendo D. e S. [gli altri due fumettai] e ci si stanno commuovendo parecchio!".
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Siccome D. e S. sono due veri maschiacci che io immagino più a inseguirsi con giganteschi spadoni da cosplayer o a punzecchiarsi pesantemente per questioni calcistiche, l'immaginarmeli anche solo lontanamente commossi mi ha, chiaramente, incuriosito moltissimo! :)
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Tenendo anche conto che quello che ho letto sinora dei due autori l'ho molto apprezzato, ho speso i non previsti (e non pochissimi, per le mie attuali tasche...) venti euro e mi sono portato a casa il volumone. In genere quando compro dei fumetti non mi ci butto a leggerli subito, anzi li lascio decantare un bel po' in attesa di un fantomatico"momento giusto per la lettura" che esiste solo nella mia malatissima fantasia.
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Appena arrivato a casa, invece, mi sono buttato sul divano e ho cominciato a leggere Un anno senza te e non mi sono alzato fino alla sua conclusione. Che, diciamolo subito, mi ha lasciato piuttosto commosso, ma anche felice.
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Ma l'entusiasmo e l'immersione non sono arrivati subito, perché durante le prime tavole della storia (già deliziato dai disegni, comunque) ero in uno stato d'animo certamente intenerito, ma un po' - come dire - distaccato: "Eh sì, queste sono proprio situazioni che si vivono da giovani...", come a sottintendere che oramai essendo io giunto a una vecchiaia matusalemmica dovrei essermi lasciato alle spalle certe storie e soprattutto certe emozioni...
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...infatti, tipo a pagina cinque avevo già gli occhi lucidi...
Non è tanto per la retorica conclusione che "una bella storia resta una bella storia, qualsiasi età rappresenti (e a qualsiasi età la si fruisca)", quanto per il fatto che sono le emozioni rappresentate - per nulla "gridate", per nulla "letterarizzate"[si potrà dire?...] - a non avere età; un bagaglio di situazioni, spesso dolorose e altrettanto inevitabili, che chiunque si porta appresso e che può, se vuole, se sceglie di farlo, agevolmente riconoscere e (ri)fare proprie.
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Qualcuno, poi, in questo specifico caso, ci si potrà riconoscere più di altri, dato che la storia parla di un giovane studente universitario gay, delle sue storie d'amore, o meglio delle persone che hanno fatto parte delle sue storie d'amore, compres* gli/le coinquilini/e, che man mano che la storia prosegue salgono sempre più di importanza, rivelando amicizia, complicità e cura dell'altro, più che mera "coinquilinità".
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Il protagonista della storia, lo studente universitario gay di cui sopra (è quasi alla tesi) è Antonio e Un anno senza te, ogni capitolo un mese, è proprio la storia dei dodici mesi che passano tra la fine della sua storia d'amore con Tancredi, bel biondo barbuto, dj festaiolo di qualche anno (non troppi) più grande.
Certo l'evento è importante, drammatico e segna uno spartiacque nella vita di Antonio, ma non è questo né il fulcro né la parte più importante della storia.
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La parte più importante della storia è tutta la storia, che narra un processo di crescita - doloroso, e così umano - in cui non c'è una pagina, una vignetta di troppo perché tutto è importante, e godibile, e funzionale alla storia, e fumettisticamente perfetto, ed esteticamente molto gratificante.
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Non so come dire questa cosa che ho in mente senza sembrare banale, ma la dico così come mi viene: tutta la storia, situazioni quotidiane o semi-fantastiche che siano [ma in quella realtà non c'è, ovviamente, alcuna distinzione: tutto è semplicemente "la vita", anche quando piovono coniglietti anziché acqua; o forse i coniglietti li vediamo noi, e Antonio, perché in quei momenti siamo tutt* un po'"fuori"...], tutta la scrittura della storia, è pervasa delicatamente - e senza nulla togliere al "divertimento" che una storia a fumetti può e deve dare - di grande intelligenza.
Sensibilità e intelligenza non vanno sempre di pari passo e talvolta l'una pregiudica l'altra o entrambe pregiudicano l'esperienza estetica.
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In Un anno senza te, invece, grazie alla sintonia tra Luca Vanzella e Giopota, tra scrittura e disegno, grazie alla bellezza della storia, dei dialoghi, dei disegni, dello storytelling[sì, si può dire che uno storytelling è bello!] intelligenza, bellezza, sensibilità - e sentibilità - sono così bene amalgamati che quando si chiude il libro, forse un po' più malinconici di quando lo si è aperto (ma è una malinconia positiva, piena di forza) si è pieni di soddisfazione. Estetica e non solo.
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Io credo che - oggi soprattutto - sia un'operazione difficilissima quella di confezionare un'opera che pur occupandosi, diciamo così, di una specifica generazione riesca a coinvolgere, a livello emozionale ed estetico, chi di quella generazione non fa minimamente parte; tant'è vero che mai come oggi i prodotti, comprese le produzioni artistiche, sono altamente segmentati (cioè targhettizzati).
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Non solo, ma i confini tra i generi, al contrario di quanto potrebbe sembrare in questo mondo così social e smaliziato, mi sembrano - sembrano a me, opinione personale - più rigidi che mai.
Proprio il contrario di Un anno senza te, che resta un'opera mainstream [sono ben felice che si trovi nelle librerie di varia, ché ha tutti i numeri per poter piacere anche a chi i fumetti li schifa un po'] pur non rispettando questa distinzione rigida e guardandosi bene dall'avere uno specifico target di riferimento.
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Dodici mesi, dicevo prima [sapete che sono uno strazio con le trame...], un capitolo per mese, a cominciare da Settembre, il mese con cui da studenti/esse si suole cominciare l'anno nuovo.
Dodici mesi e in ogni mese accadono cose, molte perfettamente riconoscibili, altre che forse - come la pioggia di coniglietti e altre che non voglio spoilerare - accadono solo nel mondo di Antonio, in quella Bologna lì, così riconoscibile eppure così diversa, ma comunque anche qui così viva e magnifica, con le torri e i portici, gli studenti e le studentesse, le biciclette e i locali...
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Merito della scrittura di Luca Vanzella e dei disegni e dei colori, meravigliosi gli uni e gli altri, di Giopota che mi hanno fatto istantaneamente affezionare ad Antonio, ai coinquilini e coinquilina, a questa realtà nota e ignota, quotidiana e fantastica, nella quale le cose sono le stesse della nostra realtà, solo con qualche piccola, ma sostanziale, differenza che ci porta in territori altri.
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La storia è densa, a parere mio possiede più di un livello di lettura, è fruibile - come dicevo - da chi fosse nuovo/a al mondo del fumetto ed è contemporaneamente sottesa da numerosi rimandi comprensibili solo da chi è addentro a certi mondi, e magari è un pochettino nerd.
La costruzione dei personaggi è fatta con grande cura (e anche affetto direi) e anche se qualcuno di essi soffre forse un po' di certa stereotipia
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Profonda e divertente, intelligente, riuscita sotto ogni profilo: Un anno senza te è un'opera che mi ha regalato molta gioia - estetica e morale - e un po' di commozione.
Consiglio vivamente la lettura di Un anno senza te, la cui edizione è peraltro perfetta [d'altronde non stiamo certo parlando di un'edizione "economica"] ottima carta, stampa perfetta, una copertina cartonata pesante con effetti anche tattili, un volume di pregio anche dal punto di vista della confezione.
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Complimenti di cuore ai due autori, che spero di leggere ancora molte e molte volte su future opere.
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Nota:
di Luca Vanzella, del quale mi spiace non aver trovato un link che porti a un blog o a una sua pagina personale, ho parlato anche QUI.
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Come dopo la pioggia - Tsubaki-Cho Lonely Planet

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Come dopo la pioggia n. 1 


di Jun Mayuzuki

seinen manga
(vedi animeclick.it)


volumetto brossurato
con sovracoperta


pag. 160 , b/n

euro 4,90

Star Comics



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Tsubaki-Cho Lonely Planet n.1

di Mika Yamamori

shoujo manga


volumetto brossurato

pag. 176 , b/n

euro 4,30


Star Comics







Questo per me è periodo di manga. Ne leggo tanti, ne parlo poco (anche perché l'idea di mettersi a sedere davanti al pc con questi quasi quaranta gradi è decisamente poco allettante).
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Eppure, siccome la mia mente malata non smette mai di pensare, la lettura di queste due operine mi ha fatto molto riflettere e vorrei provare a condividere un po' di pensieri.
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Entrambe queste due opere sono portate in Italia da Star Comics, Casa editrice cui sono molto affezionato: addirittura io sono uno di quei pazzi nostalgici che ancora rimpiange il periodo in cui la Casa editrice umbra deteneva i diritti di alcune delle mie serie Marvel preferite all'epoca pre-Marvel Italia/Panini Comics! (lo so, sono pazzo) [1]
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Uno tra i molti meriti che ascrivo a Star Comics - per lo meno per quanto riguarda la mia percezione - è quello di essere una Casa editrice che bilancia bene l'attenzione tra mainstream "sfacciato" (che è quello che generalmente permette a una Casa editrice di vivere) ed esigenze del proprio affezionato pubblico, esigenze che non sempre coincidono con serie che stravendono mietendo sfracelli di incassi. Insomma: una Casa editrice che rispetta il pubblico, ai miei occhi.
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Come dopo la pioggia
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Ho preso i due numeri 1 di cui parlo oggi, usciti quasi in contemporanea, grazie a recensioni e impressioni apparse sui blog che seguo (li trovi nella colonna lì a destra); li ho letti uno di seguito all'altro e mi hanno suscitato reazioni praticamente opposte e, come dicevo sopra, mi hanno stimolato qualche riflessione.
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Comincio col manga che ho molto apprezzato: Come dopo la pioggia, di Jun Mayazuki, mangaka di cui non so assolutamente nulla e di cui questa è la prima opera pubblicata in Italia (vi prego di segnalarmi se sbaglio).
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Come dopo la pioggia (Koi wa ameagari no yō ni) è un seinen manga e ha alcune caratteristiche che me l'hanno fatto amare immediatamente, proprio a cominciare dal plot.
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Come dopo la pioggia - Akira Tachibana
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Akira Tachibanaè una studentessa diciassettenne; è riservata, poco propensa a parlare di sé e a mettersi in mostra - anche se non mi sembra affatto "timida" - molto riflessiva e poco espansiva. Tutt'altro però che una musona antipatica, anzi: il personaggio mi ha immediatamente suscitato un'enorme simpatia e affetto.
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Dopo la scuola Akira lavora come part-time al Garden, un "family restaurant" di non troppe pretese il cui direttore è il quarantacinquenne Masami Kondo
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Tachibana è una splendida giovane donna mentre Kondo è l'opposto del canone ufficiale dell'attraenza: non solo ha un principio di calvizie e viso e corporatura che definire "banali"è un eufemismo, ma ha anche un'aspetto generale un po' trasandato e assume sempre un atteggiamento di eccessiva sottomissione nei confronti dei clienti e delle dipendenti, che quasi lo tiranneggiano. (Una di esse arriva a sostenere che il direttore - addirittura - puzza!).
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Come dopo la pioggia - Masami Kondo e Achira Tachibana
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Il direttore del Garden è divorziato e ha un figlio.
Naturalmente dalla sua ha una serie di caratteristiche che me l'hanno subito fatto amare: è una persona dolce, paziente, tollerante, attento al prossimo e - spero di non sbagliarmi - con molto amore dentro... [essì, c'ho i cuoricini che mi escono dagli occhi, e allora?!?...].

Da questi due personaggi splendidamente delineati, con personalità opposte e caratteristiche attraenti ognuna a suo modo e che rendono la lettura piacevole e interessante, comincia una storia che sono certo rivelerà scenari e situazioni divertenti, commoventi e spero anche ironiche.


Questo che segue non è un vero e proprio spoiler, perché su qualsiasi medium vogliate prendere qualche informazione su questo manga - o sull'anime che ne è stato tratto -  ve ne verrà immediatamente rivelato il plot di base che parte dal fatto, ovviamente l'avrete già stra-capito, che Akira Tachibana si innamora del direttore Masami Kondo.
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Come dopo la pioggia - Yoshizawa e Akira Tachibana
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Tachibana non è priva di ammiratori, anzi il suo compagno di classe Yoshizawa le muore letteralmente dietro... anche lui sembra una bella persona, dolce e per nulla tamarro, ma Tachibana lo evita come la peste, fuggendo letteralmente ogni qual volta lo incrocia.
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Altri bei personaggi, che spero avranno un ruolo maggiore nei prossimi numeri, sono le amiche di Akira Tachibana, un gruppetto di simpaticissime ragazze che sembrano avere parecchie potenzialità espressive; alcune colleghe del Garden e soprattutto le ragazze del club sportivo di cui la protagonista faceva parte prima che un incidente - del quale immagino sapremo di più nei prossimi numeri - le impedisse di continuare a praticare sport...
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Tutti bei personaggi, simpatici e pieni di vitalità e di potenzialità, tutti ben delineati sia psicologicamente che graficamente: Jun Mayuzuki ha un tratto che considero delizioso, molto accattivante, mai troppo lezioso eppure molto dolce e delicato.


Come dopo la pioggia
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Una considerazione che mi è venuta alla mente leggendo Come dopo la pioggia e che mi ha molto intenerito è che è bello leggere storie che affrontano con delicatezza e la giusta dose di leggerezza e ironia l'amore tra persone adulte ma con età moto diverse: è un tipo di argomento che si presta a un'infinità di situazioni, di plot narrativi, di riflessioni, e che non è poi così presente nei manga che normalmente leggo.
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Al di là dell'età dei protagonisti/e mi interessano molto le storie che affrontano l'uscire dai canoni stabiliti, che siano estetici o di qualsiasi altro tipo; storie che raccontano di persone (o di animali, o divinità, o...) che scelgono di non combattere il proprio non-conformismo e di assecondare i propri sentimenti, rischiando quindi di mettersi contro "gli altri", dalla famiglia alle amicizie ecc.
Le storie contenenti conflitti basati su quanto detto sopra acquistano, per me, un interesse molto maggiore rispetto alle altre, più consolatorie e di puro intrattenimento.

Insomma: Come dopo la pioggiaè un manga che comincia e promette benissimo, pieno di promesse e del quale non vedo l'ora di poter leggere il secondo volume!


Come dopo la pioggia



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...all'opposto - sotto diversi punti di vista - si trova, sempre per la mia personale percezione, Tsubaki-Cho Lonely Planet di Mika Yamamori, mangaka già conosciuta in Italia per Una stella cadente in pieno giorno (manga che personalmente non ho letto).
.Target diverso - questo è uno shoujo manga - storia quasi capovolta, seppure anche in questo caso ci troviamo di fronte a una giovane, giovanissima ragazza alle prese con una persona di età maggiore. Ma non è questo il punto.
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Approfitto del pratico riassuntino/intro fornito dalla stessa Star Comics:
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Fumi Oono frequenta il secondo anno delle scuole superiori. Costretta a cercarsi un lavoro per saldare i debiti accumulati dal padre, accetta un posto come domestica fissa presso l'abitazione di Akatsuki Kibikino, scrittore solitario dallo sguardo truce e dai modi scortesi.Riuscirà ad adattarsi alla convivenza con lui e al nuovo quartiere?!
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Tsubaki-Cho Lonely PlanetAkatsuki Kibikino e Fumi Oono

....ed entriamo subito nel regno della super-sospensione dell'incredulità: Fumi Oono, una ragazzina di, quanto, quindici anni?, con mamma ahimé defunta, viene lasciata sola, praticamente in mezzo a una strada (togliete pure il "praticamente": non ha più una casa!), il padre - che ha accumulato una marea di debiti, se ne va a lavorare chissà dove (su un peschereccio di tonni!)...
Dickens ci fa una pippa, come si suol dire nei migliori salotti culturali!

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E questo è solo l'inizio.
Cosa resta dunque da fare se non, a quindici anni!, "andare a servizio" (praticamente a fare la colf) da un adulto, un perfetto sconosciuto, Akatsuki Kibikino, scrittore simpatico come un moscone annegato nella minestra?
Oh già, e visto che una casa ormai non ce l'abbiamo, cos'è meglio che fermarsi a vivere dal simpaticissimo scrittore?

Il tutto nel tempo libero dalla scuola, che la ragazza non mi deve mica ripetere l'anno signora mia!
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Questo manga è ambientato all'inizio del XIX sec.? Macché, si tratta di una storia del presente...
D'altronde è nel presente che una ragazzina di, tipo, quindici anni deve fare da badante (e infermiera e da cuoca e... vedremo nei prossimi numeri, ma non oso immaginare...) a un adulto con evidenti problemi di personalità...
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Ma in Giappone i servizi sociali che fanno? E lo sfruttamento delle minorenniè legale? Ma poi perché mai una minorenne dovrebbe accollarsi i debiti di un padre evidentemente di merda?!?...

oh, non pensate male eh: è finito nel letto di lei per puro caso!
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Va bene, la pianto con questa commedia da moralista.
Lo so, è fiction, e io normalmente leggo robe di gente che vola o che spacca montagne con un martello incantato (o anche peggio), quindi non dovrei scandalizzarmi per cosette come Tsubaki-Cho Lonely Planet: come giustamente - sacrosantemente! - recitava un disclaimer ai tempi delle assurde polemiche su Dragon Ball "i personaggi di questo fumetto sono tutti maggiorenni, e comunque non si tratta di persone reali, ma di semplici rappresentazioni grafiche". Sacrosanto, dico sul serio e lo penso sul serio.

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Ciò non toglie che un manga innocuo e che raffigura delle rappresentazioni graficheè comunque riuscito a mettermi a disagio.
Dico subito che sono contro la censura, quindi per me chiunque può raccontare quello che vuole; sta a chi legge/guarda/ascolta decidere se supportare o meno l'opera o il prodotto.

Eppure... eppure sono a disagio: in questo manga, o meglio in questo primo numero, si racconta di una ragazzina che a dispetto della sua giovanissima età deve fare una vita quasi da schiava, abbandonata da quel che resta della sua famiglia e oltretutto, ad un certo punto della storia, subisce un enorme sopruso cui non reagisce, anzi pare dare per scontato che lei essendo una ragazza deve necessariamente subire[non sono l'unico a sperare che Isshin Aioi muoia quanto prima diviso in due da un treno, vero? vero???]
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Isshin Aioi, il ragazzo-merda, e Fumi Oono
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Lo so, è fiction.
Ma questo tipo di fiction non avvalla il tremendo maschilismo della società giapponese? Non rende "naturale" il pensare che in fondo le ragazze sono in qualche modo inferiori ai maschi? Forse è normale pensare che la sottomissione sia un atto naturale per le donne? 

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Certo, i fumetti, non solo i manga, ma tutti i tipi di fumetti, sono spesso pieni di prevaricazioni e di razzismo, sessismo, omofobia; però nella maggior parte dei fumetti che leggo io personalmente, sono i cattivi a soffrire delle "brutte malattie" di cui sopra e spesso proprio a causa di ciò si prendono dei meritatissimi papagni sul muso. 
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Ok: magari nei prossimi numeri, o nel finale, le cose si metteranno in modo tale che la protagonista avrà una qualche forma di riscatto, diventerà miliardaria e, una volta maggiorenne, sposerà lo scrittore che farà una cura di simpatia, mangeranno insieme hamburger prodotti dal cadavere di Isshin Aioi, il padre di Fumi morirà sbranato da un tonno mannaro ecc. ecc.

Tsubaki-Cho Lonely Planet
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Credo che alla fine la cosa mi ha creato il maggiore disagio in tutto ciò sia stata l'assoluta mancanza di ironia.
La mancanza di ironia - un minimo di ironia, eh; anche un briciolo di sottotesto - rende tutto più - tra diecimila virgolette - "naturale"; quindi rende più "naturale" sopportare il bullismo, le avances di uno che ha il doppio della tua età, una condizione di semi-schiavitù ecc. ecc.
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Le battute di spirito sono assenti in questo primo numero di Tsubaki-Cho Lonely Planet, tutto è dannatissimamente "serio".
Mi è venuto in mente proprio ora che ho smesso di guardare i film horror proprio quando hanno cessato di essere ironici e molti di essi si sono invece trasformati in esercizi della peggiore pornografia condita dal peggior cinismo. Che per carità, a chi piace così, va bene così e buon divertimento.

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Non so ancora se prenderò il secondo numero di questo manga: probabilmente non sono il target adatto e comunque la Star Comics non difetta certo di manga interessanti e divertenti da seguire.
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P.S. Le immagini a corredo di questo scritto sono prese dalla Rete: perdonate la non eccelsa qualità delle stesse, ma non mi andava di rovinare i volumetti con lo scanner...
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Note:
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[1] Pazzo ma, per certe cose, con buona memoria: molti anni fa Star Comics per non deludere i propri lettori e le proprie lettrici portò a conclusione alcune serie praticamente in perdita. Di quante altre case editrici si può dire altrettanto?
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Kekko Kamen

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Kekko Kamen

di Go Nagai


shounen manga ecchi-comico

data originale di pubblicazione:
settembre 1974 - febbraio 1978

serie conclusa, 3 volumetti,
brossura con sovracoperta, 
b/n pag. non numerate


euro 9,90 cad


J-POP





Il mio rapporto col maestro Go Nagai non è stato dei migliori negli ultimi anni.

Sono riuscito a perdermi alcune uscite fondamentali (come Violence Jack, tanto per nominarne uno) che impiegherò parecchio tempo e denaro per recuperare. 
Scelte di acquisti, anzi di non-acquisti, decisamente poco oculate hanno fatto il paio col mio associare le produzioni nagaiane a una persona decisamente sgradita (e grazie a Shiva uscita per sempre dalla mia vita alcuni anni fa) hanno avuto la conseguenza di portare nella mia biblioteca domestica una scelta di opere del maestro di Wajima ancora miserrima. [1]

Naturalmente ho tutte le intenzioni di recuperare, stipendio permettendo.

Ebbene un'opera, forse non la più importante, ma decisamente tra le più divertenti, sono riuscito a recuperarla in questa nuova edizione J-Pop: si tratta di Kekko Kamen, uscita originariamente nel 1974 in Giappone e in Italia per la prima volta nel 2008. 
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Kekko Kamen nella nuova edizione J-Pop
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Umorismo, non maschilismo?

Al tempo della prima uscita di Kekko Kamen in Giappone, qui da noi si era già in fase di piena esplosione del fumetto erotico per adulti che in mezzo a tonnellate di spazzatura ha prodotto anche opere fumettistiche interessanti e artisticamente valide [vedi p. es. qui].
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La maggior parte dei fumetti erotici italiani per adulti - che erano avidamente fruiti non solo da questi ultimi, ma anche da qualsiasi minorenne riuscisse a impossessarsi di qualche albo, magari con la tacita complicità di qualche barbiere [2] - narravano storie in cui nessun non-adulto avrebbe potuto identificarsi. Ed erano fondamentalmente, quando non ostentatamente, maschilisti, sessisti e omofobi. Tranne eccezioni, poche direi.
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Kekko Kamen, invece, è un manga comico-erotico dichiaratamente rivolto ai ragazzi e pur non presentando mai scene di sesso esplicito (inteso come penetrazioni varie o rappresentazione di organi genitali) abbonda in quanto a violenza e nudità femminili: ogni pretesto narrativo ha la finalità di mostrare nudità femminili: in primis quelle della protagonista, la studentessa Mayumi Takahashi, e poi quella della sua salvatrice, la supereroina Kekko Kamen, che agisce indossando abbigliamento (...) composto da: maschera per coprire l'identità segreta, sciarpa, guanti e stivali. Oltre a questo striminzitissimo abbigliamento (...) Kekko Kamen ha sempre con sé una frusta con la quale dispensa abbondanti punizioni ai cattivi di turno.
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Nonostante queste premesse io personalmente in Kekko Kamen non ci ho visto né sessismo né in particolare maschilismo (se non la dose minima in quanto fumetto scritto negli Anni 70 da un maschio giapponese). Sono troppo accondiscendente verso il maestro Nagai? Può essere. Ma entriamo nel particolare.
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è lei, la misteriosa e svestitissima Kekko Kamen!
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Nell'Istituto Sparta, scuola dove loschi insegnanti umiliano quotidianamente gli studenti nei modi più bizzarri, fa la sua comparsa l'eroina Kekko Kamen! Coperta solo da maschera, sciarpa e stivali, la svestita paladina della giustizia si ergerà a difesa dei poveri studenti!  [plot fornito dalla Casa editrice]
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Questa la trama di base della storia di Kekko Kamen, costituita sostanzialmente da episodi autoconclusivi, collegati da una ferrea e coerente continuity interna.
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Sottolineo che la coerenza è, appunto, tutta interna, in quanto la storia poggia su basi assurde e probabilmente proprio per questo ancora più divertenti: l'assurdità dell'assunto di base permette a Nagai di scatenarsi con decine e decine di gag che in una situazione "realistica" sarebbero improponibili.
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A cominciare dall'ambientazione: l'Istituto Sparta (nome scelto non a caso) è una fortezza impenetrabile situata in mezzo a chissà quale boscaglia; esso ospita, a carissimo prezzo, studentesse e  studenti i quali con discutibilissimi mezzi vengono "formati" per passare gli esami più difficili e poter così entrare nelle migliori scuole del Giappone.
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Gli insegnanti scelti per questo compito sono praticamente dei criminali sadici che più che insegnare godono a infliggere agli studenti, anzi preferibilmente alle studentesse, le peggiori punizioni corporali; il tutto sotto l'occhio bavoso e pervertito del preside, chiamato Unghia del Piede di Satana, perennemente coperto da una maschera da demone con un cappuccio da giullare.
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il preside dell'Istituto Sparta: Unghia del Piede di Satana
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Come esaurientemente spiegato dalle note che concludono tutti e tre i volumi della J-Pop, tutti i nomi dei personaggi di Kekko Kamen sono storpiature e/o parodie di personaggi di altri manga, alcuni dello stesso Go NagaiIl traduttore italiano, Fabiano Bertello, fa letteralmente i salti mortali per mantenere anche nella nostra lingua il significato - o almeno parte di esso - degli spassosi nomi giapponesi e, pur essendo la cosa in taluni casi impossibile, svolge davvero un ottimo lavoro.
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Dall'Istituto Spartaè impossibile non solo fuggire, ma anche solo entrare in contatto col mondo esterno, famiglie degli studenti e studentesse comprese! Nessuno quindi è al corrente delle nefandezze sadico-sessuali che si consumano all'interno della fortezza.
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La studentessa più sfortunata, perenne preda degli appetiti sadico-sessuali del preside e dei criminali insegnanti, è la già citata Mayumi Takahashi, studentessa del primo anno, pura di cuore e di sentimenti - o così sembrerebbe - gentile e disponibile e forse proprio per questo vittima designata dell'accozzaglia di depravati che gestisce lo Sparta... 
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Ogni scusa è buona per punire Mayumi nei modi più crudeli e quando la scusa è assente, Unghia del Piede di Satana e collaboratori la costruiscono ad hoc per potersi divertire.
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una delle "tipiche situazioni" in cui si trova Mayumi Takahashi
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Mayumi rischierà più e più volte la sua stessa vita, ma sempre arriverà a salvarla la sua amatissima e misteriosa Kekko Kamen.
Non saranno sempre vittorie scontate, anzi, come in tutte le narrazioni di battaglie che si rispettino, spesso e volentieri l'eroina nuda avrà inizialmente la peggio, talvolta anche la molto peggio... ma ovviamente, essendo la serie intestata a suo nome, la vittoria finale dovrà pur sempre essere la sua.
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Oltre a escogitare punizioni sempre più sadiche ai danni delle allieve, e di Mayumi in particolare, Unghia del Piede di Satana e i suoi diabolici collaboratori avranno di che progettare sempre nuovi escamotage - a base di sesso e violenza, s'intende - per cercare non solo di catturare Kekko Kamen, ma anche e soprattutto di scoprire chi si cela sotto la sua maschera.
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Così un episodio dopo l'altro, tra torture e abusi, ragazze spogliate - soprattutto Mayumi - e violenza che diventa sempre più estrema (o che cerca di diventare tale), tentati omicidi, tradimenti, doppi giochi e una marea di giovani seni e sederi al vento e sospetti su chi si celi dietro la maschera della vendicatrice Kekko Kamen, si arriva al gran finale, denso di combattimenti e salti scosciati (il colpo segreto e micidiale della nostra eroina, col quale mette la propria vagina praticamente in faccia all'avversario di turno); un finale epico e sacrosanto, che lascerà comunque molti dubbi irrisolti...
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Eccolo il primo "salto scosciato", arma terribile di Kekko Kamen!
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Dunque: come mai poco prima mi sto a lamentare della "eticità" di un fumetto e ora esalto un manga classificato come "ecchi"con abbondanti dosi di "fan service"???
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Perché c'è una differenza enorme tra un manga odierno in cui una ragazzina viene resa schiava da un adulto [che alla fine certamente se la sposerà, perché si sa: la donna non è tale se non moglie e madre...] e un manga di oltre quarant'anni fa in cui ogni cosa, dalle tette ai culi alle frustate alle torture alle botte all'iperviolenza, è manifestamente ironica, anzi proprio comica, e tutto quanto è, in modo dichiarato, una satira ad altri, ben più drammatici, manga.
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La differenza è davvero abissale!
Non so se il maestro Nagai sia femminista o meno, e francamente non mi interessa, ma so che in Kekko Kamen non ho trovato maschilismo [se c'è e non l'ho visto io, per favore ditemelo, sul serio. Grazie], anzi ci ho visto il contrario.
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L'umorismo e la comicità possono - eccome - essere "schierati", con buona pace dei qualunquisti, ma in questo manga la comicità è solo (e tanto) divertente e anzi prende pesantemente in giro istituzioni "sacre" come:
la scuola giapponese, ultra competitiva quasi a livello di disumanità; 
la presunta "superiorità" dei maschi sulle femmine; in questo manga la totalità dei maschi fa proprio un po' schifo, mentre la maggior parte delle femmine sono personaggi decisamente più positivi; 
l'imbarazzo per situazioni che sarebbero naturali (nudità), ma che vengono invece ufficialmente stigmatizzate, mentre privatamente e con le peggiori scuse ci si sbava abbondantemente sopra; 
un tabù che da qualche migliaio d'anni imbarazza terribilmente tutti quanti, i maschi soprattutto, ovverosia la vagina. Altro che"invidia del pene", ma per favore...
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la nostra eroina se la cava anche coi nunchaku
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Leggendo Kekko Kamen i giovanottini - e le giovanottine lesbiche s'intende - si saranno anche chiusi in bagno quarant'anni fa (e magari anche oggi, se dio vuole), ma il quid principale di questo manga, la cosa che lo rende realmente e gioiosamente fruibile oggi, non sono le tette e i culi, o per lo meno non sono loro la cosa principale: la cosa - le cose - che lo caratterizzano sono il divertimento sfrenato, la comicità prorompente, la satira pungente valida quarant'anni fa come ancor oggi, la gioia della ribellione all'autorità ingiusta (anzi, proprio criminale... ciò mi rammenta qualcosa... situazioni a noi molto più vicine nel tempo e nello spazio...), l'assenza di moralismo, gli elementi positivi di amicizia e solidarietà, il disinteresse dell'eroina. 
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Insomma, un mucchio di cose positive, che comunque si possono anche tranquillamente ignorare per fruire Kekko Kamen anche "solo" come fonte di risate e gioioso divertimento, grazie alle decine di divertentissime gag, azione ultra-dinamica e iperviolenza. A proposito della quale ricordiamoci che un corpo sanguinante e prostrato, esattamente tre vignette dopo è sano, riparato e senza cicatrici: ciò a dire che non è la violenza l'elemento centrale del manga, ma ci serve solo come escamotage per parlare d'altro, divertendo(ci). 
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Ciò non toglie che le numerosissime scene di bondage siano fatte veramente ma veramente bene e chi apprezza il genere ne resterà, ne sono convinto, più che soddisfatt* .
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tranquilli/e: un paio di vignette e Mayumi Takahashi sarà come nuova!
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La risposta alla domanda che mi facevo all'inizio di questo scritto è senz'altro: sì, umorismo, non maschilismo. Questo indipendentemente dalle idee personali di Go Nagai, alle quali ripeto di non essere interessato; non in questo contento, almeno.
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Mi sono anche detto, a rigor di correttezza (nei miei stessi confronti, intendo) che essendo io un uomo, sono scarsamente adatto ad identificarmi con le vittime dei criminali "insegnanti" dell'Istituto Sparta; allora ho pensato alla stessa storia in cui le vittime siano uomini gay di mezz'età e beh, credo che mi sarei divertito ancor di più! :)
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Per quanto riguarda lo stile del maestro Nagai, sapete già che o lo si ama o lo si odia, è decisamente difficile restare indifferenti; io - neanche a dirlo - faccio parte di coloro che lo stile del maestro lo amano.
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L'edizione J-Pop l'ho molto apprezzata: bello tutto, dalla carta alla stampa alle sovracoperte e se c'è chi potrebbe lamentarsi del prezzo, faccio notare che i tre volumi sono belli cicciotti e il tempo di lettura di ciascuno è tutt'altro che breve, quindi sì, promosso anche il prezzo.
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Iiil suooo voltooo nessun conosce però...iiil suooo corpooo... tutti conoscono!Kekko Kamen la nostra paladina! Che gran donna è!...
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Note:
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[1] Possiedo attualmente solo Devilman, La Divina Commedia, Mao Dante, Shin Mao Dante e Ufo Robot Goldrake. Ho letto a scrocco, molto tempo fa, i primi volumi di Violence Jack, tutto Mazinsaga e tutto Getter Robot Saga.
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[2] Sia sempre santo il barbiere di piazza S. che, dal 1968 al 1971, mi permise di leggere tonnellate e tonnellate (e tonnellate) di Kriminal, Satanik, Jacula, Isabella, Terror, Jolanda, Vartàn... e un sentito "grazie!" anche al barbiere di via P. che dal 1971 al 1974 continuò a permettere la mia formazione culturale con altre tonnellate di Oltretomba, Rolando del Fico, Wallenstein, HessaDe SadeBonnie, Goldrake Playboy (che non è una versione erotica del robottone di Nagai), LuciferaLando, Il Montatore e mille altri ... 
Per la cronaca, dai 14 anni non ebbi più proibizioni di sorta nelle mie letture, segno non tanto della liberalità del genitore, quanto del suo dichiararsi sconfitto sapendo benissimo che avrei comunque letto, di nascosto, ciò che desideravo leggere. Grazie papà. E grazie anche a Voie a Voi.
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Go Nagai: "Kekko Kamen" - J-Pop


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Maria pianse sui piedi di Gesù

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Maria pianse sui piedi di Gesù-Prostituzione e obbedienza religiosa nella Bibbia
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di Chester Brown



volume unico
cartonato 11x19 cm
bianco e nero
280 pagine


traduzione di Michele Foschini (fumetto) e
Leonardo Favia (appendice e note)



Bao Publishing


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Se non avete altro da fare vorrei che prima di leggere le prescindibili righe che seguiranno, andaste a leggervi l'intervista a Chester Brown apparsa qualche tempo fa su Smokyland, l'ottimo blog dell'amico smokyman.
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Chester Brown (foto: Sook-Yin Lee da The Comics Alternative)
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Ricordo come fosse ieri la sorpresa, e la gioia, provata durante la lettura della prima opera a fumetti di Chester Brown pubblicata in Italia (Non mi sei mai piaciuto, edita nell'ormai lontano 1999 da Black Velvet): sono passati 18 anni e continuo a sentire un fascino immenso provenire da quella narrazione dimessa, tutto il contrario dell'esplosione di colori (e spesso di sciocchezze) di cui erano pieni i fumetti di supereroi che all'inizio di quel decennio avevo ricominciato a frequentare.
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.Quest'autore ha segnato per me - in modo del tutto casuale (sempre ammesso che esista il caso) - una sorta di spartiacque nelle mie letture fumettistiche ed ha perciò nella mia mente una certa, probabilmente irrazionale importanza.
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.Lo stile grafico di Chester Brown, evolutosi negli anni in modo quasi impercettibile è tra quelli che preferisco: apparentemente semplice, elegante ed essenziale, perfettamente fumettistico, cartoonesco ma nonin senso comico, quasi stilizzato, ma senza rinunciare ad alcun particolare, anche minimo, utile alla storia. Potete vederlo nelle immagini in questa pagina e decidere si vi piace o meno.
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Maria pianse sui piedi di Gesù - Chester Brown
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Il motivo principale per cui amo lo stile di Chester Brownè proprio il suo essere fumettistico, nella migliore accezione del termine, io amo molto i fumetti che sembrano (perché sono) fumetti; questo è l'unico, soggettivo, se volete ingenuo motivo per cui non ho mai amato disegnatori iperrealistici come ad esempio Alex Ross, tecnicamente eccelso ma che non mi emoziona e mi dà la sensazione di leggere un patinato fotoromanzo, più che un fumetto. [1]
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Naturalmente apprezzo moltissimo anche il suo modo di raccontare - il suo storytelling - la sua scansione regolare della tavola i suoi bianchi-e-neri senza compromessi.
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Non ho letto tutte le sue opere perché una resistenza diciamo così ideologica mi frena dalla lettura di quella che è la sua opera più controversa: Io le pago, a proposito del quale vi invito nuovamente, se ancora non l'avete fatto, a leggere l'intervista apparsa su smokyland.
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Per farla brevissima - necessariamente banalizzando la questione - a mio modo di vedere la prostituzione non è quasi mai (in realtà penso che non lo sia mai) una "scelta" da parte delle donne. [2] Per Chester Brown invece, il rapporto sesso per soldiè  naturale e anzi non solo accettabile, ma preferibile a una relazione monogamica duratura. 
Accetterei senza problemi questo discorso se il prostituto fosse lui, Chester Brown il quale per pura e consapevole scelta praticasse la prostituzione per il desiderio di avere rapporti sessuali con più persone, per denaro e senza coinvolgimento affettivo.
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Maria pianse sui piedi di Gesù - Chester Brown
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Il fatto è che la maggior parte delle prostitute sono sottoposte invece a un dominio mafioso, maschilista, criminale e spesso estremamente pericoloso. Le prostitute, ovunque, non hanno diritti, spesso non sono considerate nemmeno persone ed è ben raro che qualcuno voglia avere una prostituta come amica o vicina di casa o partner affettiva.
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Non ho motivo di dubitare dell'onestà, della buona fede e della gentilezza di Chester Brown come persona, ma -viste anche le sue ultime opere a fumetti, tutte incentrate su questo tema - credo che sia un tantino ossessionato dalla prostituzione, proprio allo stesso modo in cui altr* saranno ossessionat* dalla monogamia.
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Questa sua, a mio modo di vedere, ossessione - che maliziosamente si potrebbe pensare abbia (anche) un certo carattere auto-assolutorio/giustificativo - ha portato l'autore canadese a produrre questa bella opera a fumetti dallo strano titolo: Maria pianse sui piedi di Gesù con l'ancor più strano sottotitolo Prostituzione e obbedienza religiosa nella Bibbia.
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Opera bella, certo (è pur sempre Chester Brown) ma non esente da difetti; un'opera che da un lato mi è molto piaciuta, dall'altro mi ha fatto anche arrabbiare. [Cosa che, detto tra noi, mi sembra positiva. Leggere cose "carine" e magari tranquillizzanti va bene, ma ogni tanto, magari anche spesso, fa bene leggere cose che fanno arrabbiare.]
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Maria pianse sui piedi di Gesù - Chester Brown
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Cominciamo dai pregi di quest'opera: come dicevo, i disegni e lo storytelling di Chester Brown sono sempre accattivanti e Maria pianse... non fa eccezione. Qui l'autore sceglie di raccontare le sue storie - con l'eccezione di quella inserita tra le note (ci arriviamo tra un po') - sempre con la stessa gabbia di quattro vignette rettangolari verticali per pagina.
Anche grazie a questa scansione i racconti appaiono fruibilissimi, senza "buchi" di alcun genere, semplici da leggere senza alcuna accezione negativa al termine "semplici".

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I protagonisti, i personaggi, pur essendo a loro modo già strutturati da oltre un paio di migliaia di anni, sono ripresi dall'autore in un modo che è rispettoso delle fonti (la Bibbia) ma anche emotivamente, affettivamente personale. Questo, da lettore/lettrice, lo si sente molto e il risultato è una lettura calda e partecipata, a prescindere dalle ideologie religiose o anti-religiose di ognun*.

Maria pianse sui piedi di Gesùè composto da undici storie tratte dalla Bibbia (perché ovunque si parla di "nove" storie? Sarò io che con l'aritmetica non vado d'accordo, ma ne conto undici; contate con me: Caino e Abele, Tamar, Rahab, Rut, Betsabea, Maria madre di GesùI Talenti, Maria di Betania, Matteo, Il Figliol Prodigo e - tra le note- Giobbe. [3])
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Maria pianse sui piedi di Gesù - Chester Brown
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Qui sopra ho grassettato e sottolineato la parola "note" perché è a mio parere si tratta di uno dei punti fastidiosi del libro.
Cito dall'intervista sul blog Smokyland [che mi auguro a quest'ora abbiate letto, pigron* che siete!]:
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[...] fai sempre più affidamento alle note testuali finali che aggiungono commenti e informazioni sulle tue vignette e tavole al fumetti. È stata una scelta consapevole?
Chester Brown: Ho inserito delle annotazioni finali già nel mio adattamento del Vangelo di Marco del 1987, per cui non è una novità per me. Il cambio di formato dagli albetti al libro mi ha probabilmente fatto capire che, se avessi voluto, avrei potuto approfondire maggiormente i temi trattati utilizzando delle note scritte.

[...]
Che riscontri hai avuto? Sei soddisfatto dei risultati?
Chester Brown: Tendenzialmente, ai “puristi” del fumetto non piacciono mentre agli altri sì. Credo che i puristi pensino che col fumetto si possa raccontare e trattare qualsiasi argomento per cui un graphic novel dovrebbe contenere soltanto… fumetto. Personalmente credo che ci siano cose che funzionano meglio a fumetti e altre in prosa per cui… perché non utilizzare entrambi gli strumenti?  
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So che non è bello prendere frasi di qualcuno e commentarle senza che l'autore posso a sua volta ribattere, ma non avendo il numero di telefono di Chester... (e avendo una conoscenza dell'inglese che probabilmente non mi consentirebbe un'intervista con lo stesso...) eccomi qui a chiosare [e chiocciare] e contestare.
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Maria pianse sui piedi di Gesù - Chester Brown
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Non so se sono un"purista del fumetto", ma a parte From Hell del sommo Alan Moore (che essendo appunto Sommo è per definizione incontestabile, per lo meno da me) non ho mai trovato che le storie a fumetti avessero bisogno di "note", se non eventualmente quando inserite in contesti extra-fumettistici destinati quindi non alla mera lettura, ma all'analisi, al confronto/paragone o a quel che volete (a uno studio critico, insomma). Penso che i fumetti si reggano su se stessi. Forse è un'idea un po' rigida, ma a tutt'oggi la penso così.
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Forse Chester Brown intende questa sua opera come uno studio critico, e se così è a mio parere lo studio non è riuscito. Il fumetto è molto riuscito e, come detto sopra, è molto bello; ma se fosse inteso come studio o dimostrazione di una tesi,non ci siamo. E la cosa la si fa anche un po' troppo "pagare" al lettore/lettrice.
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Due sono le idee principali sostenute dall'autore di Maria pianse sui piedi di Gesù:una di esse è accattivante ma non dimostrata e anzi un po'naive, l'altra - a mio giudizio - si basa su congetture magari affascinanti, ma completamente assurde. Entrambe, secondo l'autore, sono deducibili dalla lettura della Bibbia:
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1)Dio, il dio biblico s'intende, preferisce le persone "liberamente pensanti" invece di quelle "ciecamente obbedienti"; idea "progressista", ma sfatata da centinaia di passi e dell'Antico e del Nuovo Testamento;
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2) La madre di Gesù era evidentemente - proprio ovvio e acclarato, secondo l'autore - una prostituta.
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Maria pianse sui piedi di Gesù - Chester Brown
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Questa teoria così affermativa mi ricorda un certo, vetusto, anticlericalismo ottocentesco italiano che per quanto ideologicamente comprensibile (da me, per lo meno) spesso otteneva l'effetto contrario di quello sperato, suscitare ilarità invece che l'auspicata diffusione di un anticlericalismo cosciente e politicamente efficace...
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Io non sono cristiano quindi l'ipotesi/idea che la madre di Gesù (la cui esistenza di entrambi i personaggi è tutt'altro che storicamente accertata) fosse una prostituta non mi scandalizza né mi offende in alcun modo.
Il mio interesse storico culturale per le religioni è tutt'oggi intensissimo - e essendomi associato per motivi di studio qualche anno alla, diciamo così, "estrema sinistra" del cristianesimo (valdesi), ho praticato assai la Bibbia e un po' di studi biblici fatti con estrema serietà e scevri da qualsivoglia fanatismo o fondamentalismo. 
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Ora, affermare con sicurezza, tramite lo studio dei testi biblici [la Bibbia - specialmente il così detto Nuovo Testamentoè un testo (una serie di testi, ovvio) che ha in sé stesso le proprie fonti, non essendo appunto un libro di storia] che: 

la madre di Gesù era una prostituta, che Gesù fu consacrato come Cristo da una prostituta e che Gesù sosteneva che la prostituzione fosse di giovamento per la società.
mi pare francamente un po' ridicolo, abbastanza infondato e nemmeno poi così originale (era infatti una delle tante accuse fatte da alcuni pagani ai primi cristiani:"il vostro così detto "dio"è il figlio di una puttana") e mi sembra invece un voler vedere ovunque l'oggetto della propria personale ossessione. Non ricordo proprio, inoltre, dove poi, nei Vangeli e nel resto del Nuovo Testamento, Gesù abbia mai detto che la prostituzione fosse di giovamento per la società...
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Maria pianse sui piedi di Gesù - Chester Brown
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A dimostrazione e integrazione delle sue idee Chester Brown colloca alla fine di Maria pianse sui piedi di Gesùquasi cento pagine di note.
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Come l'autore stesso dice nell'intervista sul sito smokyland: "le note si possono leggere a integrazione del fumetto oppure si possono saltare", certo questo è vero, così come chiunque può decidere di leggere qualsiasi cosa a pagine alternate o capovolgendo il libro, ma per il lettore/lettrice "saltare le note" vorrebbe anche dire aver pagato per quasi cento pagine (su 270) la cui fruizione non è particolarmente gradita. Inoltre una delle nove storie di cui è composta l'opera a fumetti - una delle più lunghe, per altro - si trova proprio in mezzo alle note e saltarle a pié pari potrebbe significare perdersi quella storia.
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Le note, infine, non sono segnate come normalmente avviene, ossia con un riferimento visibile sito nel passo (vignetta) che si sta leggendo e che rimanda, magari con una certa precisione e un numeretto, alla nota, ma sono invece collocate al fondo del libro, dopo la postfazione e i ringraziamenti e la lettura del fumetto alternata alle note risulta niente affatto agevole, se non proprio fastidiosa.
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Essendo poi il volume di piccole dimensioni - dimensioni per altro perfette per il tipo di narrazione contenute in esso - le quasi cento pagine di note risultano difficilmente leggibili per chi, come il sottoscritto, soffre di anzianità e vista-non-proprio-perfetta...
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Maria pianse sui piedi di Gesù - Chester Brown
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Ma quindi, alla fine, lo consiglio o no Maria pianse sui piedi di Gesù di Chester Brown?
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Certo che sì, perché come ho detto sopra come fumettista Chester Brown è capace di raccontare in modo originale, affascinante e accattivante; perché le nove storie si bevono d'un fiato e fanno riflettere; perché le note, per quanto soggettivamente le abbia trovate eccessive e collocate non proprio nel modo migliore, sono comunque uno strumento che superato il disagio, può diventare utile per l'approfondimento, la riflessione e anche per contestare le idee proposte dall'autore.
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Sono consapevole che Maria pianse... non è un libro per tutti/e, l'argomento trattato e il modo di affrontarlo - e anche di narrarlo - possono non essere a prima vista così attraenti per un certo tipo di pubblico... ma fumettisticamente parlando, si tratta di un'opera esteticamente molto bella e pienamente riuscita e l'argomento, per quanto non popolarissimo e forse non particolarmente adatto a persone giovanissime, è assai interessante.
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Note:
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[1] E'lapalissiano che ognun* fruisce dei fumetti nel modo che più le/gli aggrada; nel mio caso io amo i fumetti che rispecchiano il mio modo di intenderli e perché, la maggior parte delle volte, producono un effetto estetico-emotivo nella mia mente (e nella mia vista) trasportandomi in un luogo virtuale in cui la realtà, sebbene richiami la nostra realtà, èdifferente. Nella nostra realtà nulla - per esempio - ha i bordi neri come nei fumetti. 
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Quando leggo i fumetti di Superman cerco un "qualcosa" che, ovviamente, non esiste nella realtà, sono le emozioni che chiedo di provare che devono essere "realistiche", voglio leggere fumetti in cui si veda bene che si tratta di fumetti e contemporaneamente io mi senta trasportato in un "altro mondo". 
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Il modo di disegnare, ad esempio, di Alex Ross, che mi mostra impietosamente (giudizio mio) le pieghe del costume di Superman - o le sue rughe - fa l'esatto contrario, ossia trasporta nella mia realtà vera persone e situazioni che sono impossibili e, in quel caso, la mia "sospensione dell'incredulità" fa una dannata fatica a funzionare; talmente tanta fatica che lascio perdere e, quasi a priori, non leggo fumetti "iperrealistici".
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[2] Questa mia idea non ha nulla a che vedere con "regole morali" o cose del genere, tanto meno col negare un tipo di sessualità "non convenzionale" o col voler imporre la monogamia come regola generale. Questa mia idea ha invece a che fare con lo sfruttamento, con un concetto maschilista e utilitaristico della donna [vergine, madre o puttana: ricordate?... No che non ricordate, siete troppo giovani...], con l'orribile senso di "appestate" che, volenti o nolenti, circonda la maggior parte delle prostitute in queste nostre società attuali. Le prostitute, oggi e in queste società capitalistiche, sono merce. Dove sta la "libertà di scelta"?
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[3] Da quali libri della Bibbia sono tratte le 11 storie: 
Caino e Abele: Genesi cap. 4; 
Tamar: Genesi, cap. 38; 
Rahab: Giosuè, cap. 2
Rut: Rut, dal cap. 1 alla fine; 
Betsabea: Samuele II, cap. 11; 
Maria madre di Gesù
I Talenti: Matteo 25:14-30; 
Maria di Betania: Giov. 12:3, Matteo 26:6-13, Marco 14:3-9
Matteohttps://it.wikipedia.org/wiki/Vangelo_secondo_Matteo
Il Figliol Prodigo: Luca 15:11-32; 
Giobbe: Libro di Giobbe, dal cap. 1 alla fine.

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L'esame di GiobbeSatana riversa le piaghe su Giobbe, dipinto di William Blake per il Libro di Giobbe, 18261827Tate GalleryLondra.




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Il mio Quarantennale del Punk - pt. 1

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God Save the Queen - Sex Pistols (Virgin, 1977)

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Esattamente quarant'anni fa la mia vita cambiò improvvisamente e completamente.
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Quello che segue è il mio personale "Quarantennale del Punk"

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Avevo 17 anni ancora da compiere e ascoltavo tantissima musica, come avevo sempre fatto dacché ne avevo memoria, sempre, tutto il giorno e tutti i giorni. I miei genitori vedevano il loro strano figlio sempre chiuso in camera, appiccicato al giradischi (mono) a rovinarsi le orecchie. Immagino si preoccupassero.
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Avevo sempre per le mani tantissimi libri, ma proprio mai nessuno di essi riguardava i programmi scolastici, lo studio... Leggevo anche tante riviste, riviste musicali di ogni tipo che mi facevo prestare o che, quando potevo, comperavo, riviste italiane - 
Ciao 2001, Gong, Muzak Popster e altre - e anche straniere: di queste ultime all'epoca guardavo però solo le figure.
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Avevo un piccolo giro di amici tutti estremamente interessati alla musica e disponendo di pochissimo denaro avevamo messo su un "giro di prestiti": uno comprava un disco (in vinile [1]) e questo passava di mano in mano, ascoltato sino alla inevitabile rovina dei solchi per poi ritornare - diciamo non proprio sempre... - al legittimo proprietario. La stessa cosa succedeva per le riviste, che spesso tornavano al legittimo proprietario tagliuzzate e prive di alcuni articoli.
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Ascoltavo l'hard rock, i Beatles, il Progche emetteva i suoi ultimi rantoli, il cantautorato migliore, Frank Zappa, David Bowie, il folk-rock, il Glam e, in generale, tutto ciò che poteva ripararsi sotto l'ombrello del Rock...
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E un bel giorno, cioè un giorno triste e scialbo come tutti gli altri, arrivò l'Agosto del 1977 e mi trovò, come al solito, profondamente triste, insoddisfatto e incline a una forte, molto forte malinconia. 

Pare strano a dirlo a posteriori, ma ne ho un ricordo vividissimo: ero realmente in una posizione di attesa e aspettavo un qualche tipo di scossone che, nella mia adolescente impazienza, stava tardando ad arrivare. 

Non sapevo esattamente cosa stessi aspettando, ma comunque quando arrivò, arrivò tramite la cosa che per me è sempre stata più importante di tutte: la musica. (Anche se poi non solo di musica si trattava...) 
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La musica che ascoltavo fino a quel momento non mi bastava più, volevo qualcosa di più duro, rabbioso, veloce, caotico, aggressivo. Anche dentro di me c'era qualcosa di duro, rabbioso, veloce, caotico e aggressivo che voleva uscire fuori, ma non trovava la strada.
Quel giorno di Agosto del 1977 lessi un certo articolo su una non-proprio-eccelsa rivista musicale italiana chiamata "Best" e la mia vita cambiò.

L'articolo parlava di una band newyorchese: i Ramones. A sentire il redattore facevano musica durissima, essenziale, che recuperava lo spirito selvaggio del Rock'n'Roll; venivano dal Queens e stavano facendo impazzire i frequentatori del CBGB's di New York (locale che negli anni a seguire divenne una delle mete preferite dei miei sogni).

C'erano anche alcune fotografie a corredo dell'articolo: quattro giovinotti dall'aria dura in giubbotto di pelle (il famigerato "chiodo") e jeans strappati al ginocchio, scarpe da tennis e occhiali scuri, capelli lunghi e, dietro di loro, uno squallido muro di mattoni che mi immaginai appartenere ad un edificio dismesso della periferia della Grande Mela.
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Ramones - 1976
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Non avevo mai visto nulla del genere! La fotografia mi fece venire la pelle d'oca, fece scattare un pericoloso campanello dentro di me, mi attrasse come poche altre immagini avevano fatto, la guardai e la riguardai per giorni interi. 
Secondo l'articolo i Quattro erano "fratelli" e di cognome facevano tutti "Ramone", da cui il nome della band.
Non era vero, non erano fratelli né si chiamavano Ramone, ma in quel periodo le notizie di questo tipo non erano facilmente verificabili e certamente non erano di prima mano!

[A proposito di notizie "non proprio di prima mano": ricordo quando qualcuno scrisse che i Clash erano dei "picchiatori fascisti". Ora vien da ridere, ma allora si creò un vero "caso" e il sottoscritto scriveva a tutto e a tutti invitando a boicottarli, a non comprare i loro dischi...]

La parolina magica dell'articolo in questione - oltre a Ramones - era "punk"... Su quella si focalizzò tutto il mio interesse e intuii immediatamente che quel "punk" sarebbe stata la mia prossima tappa ed era esattamente ciò che stavo aspettando. La sensazione fu davvero fortissima, la ricordo molto lucidamente.
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Certo, non era la prima volta che leggevo la parolina magica: oltra al fatto che punk è un termine inglese già in uso nel XV secolo - con svariati significati, da "legno marcio" a "puttana" a "figa" -, era anche stato già usato alcune volte da Manuel Insolera, un giornalista di Ciao2001, nelle recensioni di album che, peraltro, amavo molto. Come ad esempio il secondo dei Roxy Music, che veniva appunto definito un "gioiellino punk".
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Rilessi l'articolo sui Ramones almeno una dozzina di volte e più lo leggevo e più mi incantavo e più desideravo ardentemente ascoltare quella rivoluzione musicale, che - pensavo - avrebbe probabilmente soddisfatto la mia attesa.
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Però nessuno dei negozi di dischi di Torino aveva la benché minima idea né dei Ramones né di questo punk. Dovetti aspettare alcuni mesi - pochi - prima di portare a casa, letteralmente tremante, il secondo meraviglioso album dei Ramones: Leaves Home. [Comprai prima il loro secondo album e successivamente il primo: essi arrivarono in Italia con quest'ordine.]
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Pochi accordi, canzoni brevissime a quella che allora mi sembrò una velocità pazzesca! Ballavo impazzito per la mia stanza senza sapere ancora cosa fosse il "pogo" quasi slogandomi le braccia con chitarre, bassi e batterie invisibili.
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La mia scoperta del punk era meravigliosa e triste allo stesso tempo; triste perché per quanto casinaro il punk, qualsiasi tipo di punk, ha sempre avuto in sé una gran malinconia (quando non era totalmente depressivo) e triste perché ero comunque triste io, e perché questa mia passione così totalizzante e pervasiva per il "fenomeno musicale del secolo"non era condivisa con/da nessuno. Ma era anche meravigliosa perché c'era in atto una specie di rivoluzione e io in qualche modo la stavo vivendo.
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Nelle riviste musicali il punk divenne sempre più presente. Ricordo ad esempio un'articolo apparso su Ciao2001 all'inizio del '77 intitolato Ti dò un punk nell'occhio! con in apertura una bella foto di Roger Daltrey con capelli sparati, spilla da balia nel naso e nell'orecchio, occhi pesantemente bistrati e una maglietta dei Sex Pistols strappata. [Roger Daltrey, cantante dei mitici Who, accolse con un certo entusiasmo il punk].
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Il punk cominciava a fare audience: era sporco, scandaloso, disgustoso abbastanza da attirare l'attenzione dei mass media. Si cominciarono a vedere i primi, divertentissimi servizi al telegiornale italiano: la nuova moda inglese, quella dei punk, che si vomitano in testa (ma quanto dovevano mangiare o bere per avere sempre abbondante vomito a disposizione?), indossano divise naziste e picchiano tutti!
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Mio padre, come tutti i padri, guardava i telegiornali, e cominciò a manifestare una qualche preoccupazione quando vide il suo già strano figlio uscire di casa conciato in modo decisamente strano:
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- stivaletti in pelle nera con tacco alto otto centimetri; jeans strappati al ginocchio e sul sedere; t-shirts bianca strappata con scritta PUNK! a pennarellone rosso; giubbotto nero di cotone spesso, strappato in più punti e con cerniere cucite alla buona, spille da balia infilate ovunque, scritte a pennarello bianco, una scarpina di mio nipote penzolante da una catenella cucita ad una manica, catena comprata dal ferramenta e avvolta in vita; collare per cani al collo (rosso, il collare); faccia mezza pittata di bianco, occhi bistrati con matita nera; capelli [un tempo li avevo!] sparati per aria; spilla da balia infilata nel lobo dell'orecchio al posto dell'orecchino e altra spilla da balia appoggiata sulla guancia, entrambe unite da catenella.
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Non so dove e come trovassi il coraggio di uscire di casa agghindato in quel modo. Non che ora me ne vergogni, ma è che, specialmente in una città come Torino, era abbastanza pericoloso.
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Oltre agli insulti che mi beccavo spesso dal prossimo, c'erano le frequenti perquisizioni (spesso con annessi insulti) delle forze dell'ordine. Una volta un poliziotto mi fece molto male strappandomi la catenella cui era fissata la spilla da balia che avevo infilata nel lobo... Se il mio lobo sinistro è ancora sano e intero, ciò è dovuto a un puro colpo di fortuna...
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Ero un adolescente e, come spesso accade agli adolescenti, odiavo me stesso e il mondo. Ecco dove lo trovavo il coraggio.
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Nel frattempo in alcuni negozi di dischi della mia città fecero capolino i primi album punk. Damned, il primo album dei Ramones, Clash, Ultravox, Stranglers ecc. Li compravo tutti.
Quello però cui sono più affezionato, acquistato nell'ottobre o novembre del 1977 in un negozio di dischi di Via Nizza, vicino alla stazione centrale, e unico delle centinaia di vinili che ancora possiedo (nonostante non abbia più un giradischi) è questo:
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Punk Collection, RCA 1977
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Per comprarmi i dischi facevo qualche lavoretto, vendevo i miei fumetti [eh sì...], fabbricavo braccialetti di perline (ero davvero bravo e ne vendetti moltissimi; praticamente mi mantenni anche il vizio del tabagismo per tutte le scuole superiori con questi braccialetti) e così mi compravo quanti più album potessi. Aiutavo anche una mia amica lesbica a fabbricare gioielli "fricchettoni", vendevo vecchi album che non mi piacevano più. Mi arrangiavo, insomma.
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Nel frattempo continuavo a non studiare, a marinare da scuola e a leggere libri di filosofie orientali, e a ricevere gli insulti e il disprezzo della maggioranza della popolazione, ex-amici compresi. Inoltre ai più pareva non fosse possibile che uno fosse punk e anche di sinistra, no: tutti i punk sono nazi, anche quelli che evidentemente non lo sono
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Un bel giorno del 1978 "Odeon - Tutto quanto fa spettacolo", una popolare trasmissione televisiva mise in onda un servizio sul punk. [Sarà il primo di una nutrita serie, in realtà] Milioni di telespettatori, io e mio padre compresi, ci bevemmo il servizio a bocca aperta (le nostre bocche si spalancarono per differenti motivi, naturalmente) e da quel momento ovunque si parlò di punk, dalle radio alle tv, dai giornali quotidiani alle riviste, musicali e soprattutto non-musicali. 
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Generalmente si scrivevano e si dicevano una marea di cazzate, adattando e inventando alla meno peggio cose trovate su giornali scandalistici inglesi, con fotografie - la maggior parte delle quali false anch'esse: conciavano dei giovinotti/e "alla punk" e via che il servizio fotografico era pronto - le più shoccanti possibile.
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Le riviste musicali comunque cavalcarono l'onda e pubblicarono quanti più articoli e recensioni "punk" potessero, indirizzi di riviste straniere compresi.
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Io scrivevo a tutti con la macchina per scrivere regalatami da mio padre: da "Sniffin Glue" (UK) a "Punk!" (USA), da "New Crimes"(UK) a "Wicked" (USA) ad altre di cui non ricordo il nome.
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Non sapevo l'inglese (non che adesso...): mi mettevo lì col vocabolario e scrivevo probabilmente una marea di cose illeggibili da qualsiasi inglese/americano avesse avuto la sfortuna di leggere queste mie letterine.

Solo Mark Perry di Sniffin' Glue mi rispose. Una risposta scritta a mano, in slang e con una grafia incomprensibile. Chissà che cosa mi diceva.

Intanto la mia conoscenza empirica del punk aumentava di giorno in giorno e le mie lettere, sempre firmate, affollavano le rubriche della posta delle riviste musicali.

Anche i dischi della mia collezione aumentavano e nuove bands sembravano spuntare come muffe: Sex Pistols e Ramones ovviamente; e poi Penetration, Generation X, Vibrators, i meravigliosi Eaters, X-Ray Specs, Eddie And The Hot Rods e molti altri!
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Verso la fine del 1978 mio padre mi regalò una chitarra elettrica. Una Cimar, imitazioneGibson, nera e bellissima, scintillante, stupenda.
Ancor oggi mi chiedo il perché mio padre fece quel gesto. ["Perché ti voleva bene" mi sta dicendo mio marito... Ma la risposta non credo sia così semplice]
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Se aveste conosciuto mio padre, anche voi capireste il mio dubbio.

Mio padre - per cause di forza maggiore - era la persona più parsimoniosa della Terra e non era proprio da lui spendere denaro per cose che non rientrassero nella categoria "beni di primissima necessità". Inoltre per tutta la mia adolescenza non mi dimostrò né grande interesse né grande affetto [recuperò però negli ultimi anni della sua vita, dimostrando finalmente che uomo dolce fosse]. Anche il suo regalarmi la chitarra fu rude: ero seduto nell'orribile poltrona arancione a leggere, in camera mia, e lui entrò e mi bofonchiò "Alzati che andiamo a comprarti una chitarra". Proprio non seppi cosa rispondere. Un'ora dopo sedevo di nuovo sull'orrida poltrona arancione stringendo al petto la mia bellissima chitarra nuova, pagata da papà Centoquarantamila lire.
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Cimar mod Gibson Les Paul
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Con una certa fatica riuscii a "convertire", a suon di ascolti forzati e minacce, due miei amici e compagni di classe alla causa del punk e formai, virtualmente, la mia prima band. La chitarra elettrica ce l'avevamo già: mancavano solo una batteria, un basso, un microfono, gli amplificatori e un posto per suonare. Io mi esercitai giorno e notte con la chitarra, D. percuoteva con dei ferri da calza qualsiasi superficie disponibile, A. suonava il basso col pensiero.

Passò qualche mese e un giorno di maggio del 1979 andammo alla festa di una compagna di classe ricca, con villa e tavernetta e nella tavernetta... una batteria e degli amplificatori!
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Io ho la musica nel sangue e una delle mie caratteristiche è la dimestichezza con qualsiasi tipo di strumento musicale: datemi uno xilofono afghano e io dopo un'oretta sarò lì a suonarlo, così, a orecchio. E' questo, il mio unico, minuscolo talento.


Ho solo 2 anni e mezzo, ma ho già la chitarra in mano!
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Il fratello ricco della compagna di classe ricca mi impartì i primi rudimenti della batteria (grancassa: piede destro, hi hat: piede sinistro, rullante: mano sinistra, tutto il resto - rullate comprese: mano destra e sinistra) e dopo pochi minuti tenevo già perfettamente il tempo dei dischi che venivano diffusi dagli amplificatori."Oh, ma tu sai già suonare la batteria! E' tanto che suoni? Mi insegni quel passaggio?"... e invece era la prima volta in vita mia che toccavo una batteria, e oltretutto da poco meno di un'ora.
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D. si scoraggiò e A. rimase senza parole, ma la band virtuale venne prontamente rivoluzionata: io suonerò la batteria, D. la chitarra (la mia) e A. continuerà ancora per un po' col suo basso invisibile.
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Nel Novembre del 1979 lavorai in un negozio di giocattoli; facevo i pacchi, stavo alla cassa, scaricavo il materiale in magazzino ecc. Lavorai tutti i giorni, sabato e domenica compresi. A scuola non mi videro più fino al gennaio dell'anno successivo. Alla fine del mese ebbi i soldi per comprare la più orrenda, economica batteria sul mercato: grancassa e pedale, hi hat, rullante, due tom, piatto e asta. Il tutto di qualità men che pessima. Ma io ero quasi felice e non accadeva spesso.
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Anche D. e A. lavorarono per procurarsi gli strumenti e gli amplificatori e la mamma di D. disse che per sapere suo figlio in giro, tanto valeva che ci lasciasse la cantina per suonare.
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un pezzo della prima formazione delle Spillettes: D. e io (dietro di noi, chissà...)
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Trasportammo gli strumenti in cantina e cominciammo a suonare come dei forsennati, tutti i giorni. A. era negato per il basso e ci fu bisogno di tutta la mia pazienza per insegnargli i pezzi; D. invece se la cavava bene con la chitarra mentre io con la batteria diventai una specie di fenomeno locale da mostrare agli amici. Anche perché canto. Sono il batterista-cantante della band. Gli altri due erano stonati e non avrebbero comunque saputo cantare suonando. Io ci riuscivo e anche piuttosto bene. [La modestia quando serve. Non so fare un cazzo nella vita: abbiate pazienza e lasciatemi beare almeno per il mio orecchio musicale.]

Componemmo i primi pezzi e imparammo le prime cover.

"Virus", "48 Seconds""Duck Blues", "Icon", "Vacci Piano" ecc. (pezzi nostri) e poi Pretty Vacant e Anarchy in the UK dei Sex Pistols, alcuni brani dei Ramones, Clash City Rockers dei Clash, Helter Skelter dei BeatlesJumpin' Jack Flash degli Stones, una versione selvaggia e hardcore di Tintarella di Luna di MinaMirage di Soiuxsie and the Banshees e altre cose.
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Il nome della band - l'avrete capito dalla foto lì sopra, è Spillettes (pronuncia: spillèz).

Provavamo sempre (e studiavamo mai, va da sé) e dopo un po'D. e io diventiamo bravini e finalmente facemmo il primo concerto.

Non riesco a descrivere ciò che provai quel giorno. Fortissime furono le emozioni, non ricordo il giorno preciso in cui il concerto si svolse (era comunque fine dicembre del 1979). Ma ricordo ancora la scaletta dei brani che suonammo. 

Suonammo bene e cantai bene, e nonostante non esistesse ancora una "scena punk" ottenemmo un gran successo: tutt* erano in piedi a pogare e applaudire e a gridare bis! bis! alla fine del nostro gig... Per me fu incredibile! Ora ci sentivamo - quasi - una vera band.

Poco prima del mio primo concerto avevo finalmente trovato degli amici, dei veri amici, con cui condividere questa passione. Ci vorrebbero cento post solo per raccontare il felice incontro tra me e Luca S. (anni dopo direttore di Metal Hammer), Andrea S. (futuro bassista dei Braidamage, con numerosi album all'attivo, ma prima di ciò bassista delle Spillettes al posto del defezionario A.), Paola, Gianni, Nella, Flora e gli altri... Tutti loro vennero al mio primo concerto e ci riempirono di complimenti e la gioia (e il terrore) erano indicibili.
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gli amici di allora (io sono quello al centro con la cravatta) - 1980
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Facemmo altri concerti, alcuni buoni altri meno, sempre senza mai prendere una lira (suonare per soldi non era un'opzione contemplata), ma anzi sgobbando come schiavi per caricare-scaricare, montare, collegare, riparare ecc.; ma li rifarei tutti, uno per uno.
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Esistono dei nastri che documentano uno di questi concerti, ma purtroppo sono saldamente in mano ad un discografico indipendente e non ho mai potuto ottenerli. L'unica documentazione di questo periodo, purtroppo, si riduce a delle scalcagnatissime audiocassette registrate in presa diretta (diciamo così...) che anno dopo anno si deteriorano diventando sempre più inascoltabili, e questo mi spiace tantissimo... e qui - per ora - mi fermo.
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--- fine prima parte --- [2]

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P. e Orlando - 1979

Note:
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[1] I formati in cui era possibile ascoltare musica in quegli anni erano, oltre alla diffusione radiofonica, 45 giri e album a 33 giri in vinile; musicassette e cassette Stereo8 (queste, scommetto, non le hai mai neanche sentite nominare :) )
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[2]Gli altri brani sono già pronti, non sarà una "prima parte" monca come al solito, questa volta posso garantirlo. 

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Il mio Quarantennale del Punk - pt. 2

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5° Braccio, Torino, 1982
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<<< vai alla Prima Parte del mio Quarantennale del Punk <<<

.Comincio subito con un errata corrige:


primo concerto delle Spillettes (Torino, 1979)

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Ho appena trovato la foto che vedete qui sopra e che non ricordavo assolutamente di avere.
Mi rendo ben conto che a voi che leggete non interessano - giustamente - certi particolari, ma sono invece importanti per coloro che, interessati in prima persona, si trovassero per caso a leggere questi miei scritti.
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Nello scritto precedente eravamo rimasti ai concerti delle Spillettes, la mia prima punk-band [non la mia prima "band" in assoluto, ma di questo ne parlerò magari un'altra volta] ma l'età comincia pian piano a far sbiadire i ricordi e trovando oggi questa foto ho avuto un vero colpo, visto che nel mio scritto precedente manca un pezzo, di cui mi scuso fin d'ora con Luca Signorelli [anche se non credo che capiterà mai su queste pagine].
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Infatti tra i bassisti che si sono alternati nella breve vita delle Spillettes, tra A. e Andrea Signorelli - di cui parlerò approfonditamente più sotto - c'è stato proprio Luca Signorelli, che vedete qui sopra al basso, in quella che credo sia l'unica foto esistente al mondo del primo concerto in assoluto delle Spillettes.
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Riprendo con la mia storia da dove l'avevo interrotta nel precedente capitolo.
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...Nel frattempo mi ero diplomato: 36 politico con voto di consiglio e mia promessa solenne che mai avrei tentato di inserirmi professionalmente nel lavoro cui il diploma avrebbe dovuto prepararmi. [Ammesso alla maturità, sempre con voto di consiglio, con 10 in Storia dell'Arte, 9 in Italiano, 8 in disegno e "gravemente insufficiente" in tutte le altre materie.]
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Non è importante il mio diploma, preso nel 1979, ma il fatto che proprio quell'anno, l'anno del diploma, del debutto dal vivo delle Spillettes, del mio prepararmi ad andare a vivere da solo, cominciarono i miei attacchi di panico. Insieme al Punk furono proprio loro a cambiarmi definitivamente la vita e a farmi intraprendere una strada che, forse, senza la loro sgraditissima compagnia mi avrebbe condotto altrove. 
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Gli attacchi di panico modificarono radicalmente tutta quanta la mia esistenza, dagli atti concreti e banali della vita quotidiana [prendere il tram per andare a scuola o a provare con le Spillettes, poteva diventare un'impresa davvero, davvero ardua... che comunque affrontavo, volente o nolente ogni maledetto giorno...] alle profonde e continue riflessioni cui una mente inquieta, pessimista, e ora anche impanicata, com'era la mia si dedicava continuamente. Cambiarono realmente tutto
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anche i grandi batteristi talvolta devono fermarsi a fare pipì
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Non starò a sciorinare infiniti paragrafi sui miei attacchi di panico: dico solo che qualsiasi cosa racconterò da qui in poi, anche se gli attacchi non saranno nominati esplicitamente, bisogna immaginarla permeata, aggredita, fiaccata, condizionata dagli attacchi, che mi colpivano con una frequenza e un'intensità che nessuno mi avrebbe invidiato. 
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Poteva prendermi un attacco durante l'esecuzione di un brano dal vivo con le Spillettes (e capitò eccome) e non avevo scelta se non continuare a cantare e a suonare, però come se lo stessi facendo direttamente dall'inferno e con un dolore psichico enorme, oltre alla convinzione che avrei presto fatto un'atroce fine a causa della "mancanza d'aria"[1].
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Altra cosa che non ci sarebbe bisogno di sottolineare, ma data l'epoca il bisogno c'è eccome, è il fatto che ero gay (allora non si usava ancora questo termine, si preferiva il grecismo "omosessuale", termine che pareva contenere in sé una specie di "malattia"...) e sebbene frequentassi alcuni gruppi di gay e lesbiche politicizzati - il FUORI e i COSR, collettivi omosessuali della sinistra rivoluzionaria - parlare della propria omosessualità al di fuori delle situazioni politiche/politicizzate era tutt'altro che facile.
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Quindi punk, gay, con attacchi di panico. Posso garantire che la mia vita non era per nulla semplice, per dirla con un eufemismo.
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La vita delle Spillettes continuava regolarmente tra prove e concerti, ma con una caratteristica importante, negativa, che determinò la prematura e non troppo rimpianta fine della band: l'isolamento.
Passavamo i pomeriggi a provare e riprovare, io e D., il chitarrista, miglioravamo tecnicamente, ma non eravamo parte di nulla, non avevamo alcun contatto con altre band, non c'era crescita e soprattutto non avevamo un progetto. Non c'erano posti in cui suonare e i concerti ce li dovevamo procurare con enorme fatica: abbiamo suonato in posti orribili, con impianti orribili, acustiche orribili, talvolta con cinque persone come pubblico...
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Orlando Furioso, circa 1978
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Non c'era, tra noi, scambio proficuo di idee: cosa volevamo fare? Cosa raggiungere? Perché?
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E ancora: i nostri gusti musicali differivano non poco e il suonare cominciava a diventare un'attività frutto di troppi compromessi. Io continuavo a interessarmi ai gruppi punk e alla loro evoluzione (o involuzione, in taluni casi), ascoltavo musica, non solo punk ovviamente, cercavo - senza sforzarmi, mi veniva naturale - di spaziare, allargare la mente, acquisire sempre più conoscenza, sia del punk che della musica in generale.
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Ma come dicevo nella prima parte: D. e A. erano stati da me "convertiti a forza" al punk rock e si sa che le conversioni forzate prima o poi cessano di funzionare. Io, poi, avevo sempre meno voglia di alternare brani punk, generalmente composti da me, a cover dei più svariati gruppi rock fatte per "accontentare" un po' tutti...
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Nel 1980 ci fu un grosso cambiamento che iniettò nuova linfa alle Spillettes: dato che A. col suo basso era davvero "negato" gli dicemmo che era fuori dalla band e al suo posto entrò Luca Signorelli, che sebbene tecnicamente non fosse granché, era però molto, molto addentro alla musica, aveva una cultura musicale praticamente infinita ed era pieno di entusiasmo e di idee. 
Fu proprio con Luca al basso che facemmo il nostro primo, entusiasmante concerto, già riassunto nel precedente capitolo.
.Però tecnicamente Luca al basso era limitato e una bella chiacchierata fatta tra noi chiarì le cose dal punto di vista diciamo così strettamente tecnico per le Spillettes: Luca, con un'onestà e una serenità rara [d'altronde era una persona speciale e stupenda!] ammise che non era tecnicamente all'altezza di suonare il basso con noi e lui stesso propose come bassista della band suo fratello Andrea Signorelli, un metallaro un po' più giovane di noi (se non sbaglio era ancora minorenne) grande fan dei Ramones. E la resa della band, sia nelle prove che live migliorò notevolmente.
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Andrea era - e sono certo sia ancora, così come suo fratello - una persona fantastica, piena di curiosità, avidissimo lettore, fine ascoltatore e conoscitore di tonnellate di musica, una mente aperta, priva di retorica, una persona molto generosa. Non aveva mai suonato il basso prima, ma si impegnò tantissimo e diventò bravo, imparò i brani in tempi record. Oltretutto parlare con lui era un piacere, oltre che un arricchimento per chiunque lo ascoltasse.
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Io sdraiato sul letto di D. e, seduto, Andrea Signorelli
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Non è bello da dire nei confronti di D., il chitarrista, ma ora nelle Spillettes eravamo "due contro uno" e questo mi diede nuovi stimoli: fu con l'ingresso di Andrea nella band che cominciammo a comporre brani migliori e decisamente più in linea coi miei gusti musicali, pezzi brevi, tiratissimi, urlati, feroci, punk.
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Frequentare casa di Andrea, e di suo fratello Luca, oltre ad avere un effetto positivo rispetto ai miei attacchi di panico (Andrea e Luca furono le prime persone con cui parlai di questo mio enorme problema e quand'ero in loro compagnia la mia ansia si placava un pochino), era bello frequentarli anche per le lunghe, accanite discussioni sulla musica e su mille altri argomenti; casa loro era letteralmente cosparsa di dischi e di libri, mi prestavano volentieri ciò che chiedevo.


A casa di Andrea armato di pennarelli e fogli di recupero cominciai anche a produrre i miei "fumetti"[sì, li conservo ancora tutti; no, non li vedrete mai], passione che mi portai dietro fino a pochissimi anni fa. 
Ricordo i lunghi pomeriggi e le serate passate con Andrea, Luca e i pochi altri amici e amiche - primi/e fan delle Spillettes - come delle benefiche pause tra un terrore e l'altro, tra una disperazione e l'altra: era come se mi aiutassero a respirare in mezzo a quell'orribile soffocamento che provavo ogni singolo secondo della mia vita di allora.
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Non so se Andrea e Luca abbiano mai avuto la consapevolezza del bene che mi hanno fatto, dell'affetto premuroso e della stima di cui mi hanno circondato in quel periodo... Temo di non averglielo mai detto chiaramente, mi piacerebbe avere l'occasione di farlo, ma probabilmente farei la figura del vecchio patetico nostalgico.

.Grazie al già citato "discografico indipendente" ci furono organizzati un paio di concerti  (forse tre?) in una discoteca di Torino - una discoteca che nei week-end diventava un locale per gay e lesbiche. La stessa discoteca un paio d'anni dopo diventò per un po' di tempo uno dei posti di ritrovo dei punk torinesi, grazie ai concerti che venivano lì organizzati.
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pre-Punk: 1976
.I concerti tecnicamente andarono benissimo, suonammo molto bene, anche se di fronte a un pubblico davvero striminzito. Quello che mancava era la convinzione, la comunicazione con chi ascoltava il concerto. Già il fatto che io suonassi la batteria e cantassi privava la band di quel minimo approccio fisico che il genere richiedeva; inoltre diciamolo pure, non è che fossimo esattamente delle rock-stars, ci vergognavamo anzi abbastanza, mentre suonavamo non riuscivamo a guardare in faccia nessuno dei presenti, sembravamo un po' tre ragazzi che stavano... lavorando. Tutto ciò ovviamente non suscitava grandi entusiasmi da parte di chi ci veniva ad ascoltare e se non ci fossero stati i pochissimi amici e amiche che venivano a vederci il clima sarebbe stato ancora più gelido.
Proprio il contrario di ciò che il punk intendeva esprimere.

.Questo mi fece capire che volevo un cantante, una band in cui io potessi solo concentrarmi a suonare la batteria; ma soprattutto volevo suonare in una band che avesse cose da dire, che comunicasse feeling, sentimenti, una band politica, nel senso più globale del termine.
Ma i tempi non erano ancora maturi.
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Oltre alla mia insoddisfazione, l'altro problema fu che D., il chitarrista, non si integrò per nulla col nuovo gruppo di amici e forse pativa anche "l'eccessiva" vicinanza tra me e il bassista Andrea; o forse semplicemente non gli piacevano quelle persone.
Questo fu l'inizio della vera fine delle Spillettes.
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Casa di P., già ritrovo del gruppetto di amici, divenne il mio nuovo punto di riferimento. Praticamente campeggiavo a casa sua, e sua madre, che pensava che io fossi il fidanzato di P., mi accolse sempre come farebbe una brava suocera col promesso sposo della figlia. Pranzavo e cenavo da loro e nel frattempo frequentavo la scuola per educatori specializzati, facevo tirocinio nelle comunità alloggio e negli asili nido e lavoricchiavo guadagnando quel tanto per pagare l'affitto nel miserrimo buco in cui abitavo, una monocamera di circa 20 metri quadrati, umida più di una cantina, senza riscaldamento (ma almeno aveva la doccia).
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Praticamente però vivevo a casa di P., eravamo inseparabili e in casa sua, grazie all'estrema pazienza e tolleranza dei suoi genitori, ascoltavamo tantissima musica, disegnavamo i loghi della nostra futura etichetta discografica indipendente, e quando i genitori di P. non c'erano, cosa che accadeva spessissimo, passavamo notti intere a parlare.
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Molto tempo era poi dedicato a disegnare le copertine delle musicassette su cui registravamo gli album e i singoli che ognun* di noi comprava. Era bello, ci volevamo tutt* molto bene. Ciò non fece diminuire i miei attacchi di panico né mi fece trovare l'amore, ma attenuò molto la mia disperazione. E, forse, contribuì a migliorare i rapporti coi miei genitori, soprattutto con mio padre.
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gig crowd - 1981
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In tutto ciò non c'era più spazio per le Spillettes e inoltre D., il chitarrista, partì militare.
Mentendo spudoratamente gli promisi che non avrei suonato con altri fino a che lui non fosse tornato. Promessa che sapevo perfettamente non avrei mantenuto, anzi la sua partenza mi sollevò e mi fece sentire libero di ricominciare a pensare a una band con presupposti diversi e in cui io non dovessi cantare.
Continuò comunque la forte amicizia con Andrea, oramai ex-bassista delle Spillettes.


.Nel frattempo A., un mio vecchio amico d'infanzia che avevo conosciuto quando io avevo 11 anni e lui 8, aveva formato un gruppo punk dall'"originalissimo" monicker Fiori del Male [probabilmente all'epoca i tre quarti dei gruppi punk italiani si chiamavano Fiori del Male...] e mi chiese se mi andava di suonare con loro. Accettai immediatamente e cominciammo a provare. Finalmente potevo dedicarmi al suonare la batteria senza dover anche cantare!

.Facemmo un paio di concerti, ma la mia iniziale soddisfazione durò pochissimo: l'attitudine, o meglio l'intenzione, era diversissima tra noi e anzi c'era vera e propria incompatibilità. 
A., il chitarrista, era interessato a fare musica dura, ma non troppo, e amava molto il look Punk 77 (pelle nera, bandiera inglese ecc.) ed era scevro da qualsiasi motivazione diciamo così politica; P. il secondo chitarrista era un ragazzo timido ed educato, ai miei occhi completamente estraneo a una qualsivoglia attitudine punk; F. il bassista/cantante [lo ritroveremo presto] era un ragazzo carico di una rabbia distruttiva e anche - così mi sembrava - auto-distruttiva; uno che durante il concerto prendeva quelle pillolone rosse che servono a simulare la fuoriuscita del sangue dalla bocca (le stesse che usava Gene Simmons dei Kiss) che poi sputava all'atterrito pubblico delle prime file.
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i Fiori del Male, Torino - 1981
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Nel frattempo io mi interessavo sempre di più alle istanze politiche del punk, come l'autogestione, l'autoproduzione, l'assenza di qualsiasi compromesso col sistema industriale-musicale, l'abolizione della distinzione tra "artisti" e "pubblico" e contemporaneamente cominciavo a prendere sempre più le distanze dal "Punk 77", cioè da quell'attitudine di pura rabbia e ribellione qualunquista "contro tutto" fatta anche di autolesionismo, alcool, droghe, violenza e ideologie di destra. [D'altronde il qualunquismo è sempre di destra.] Così un bel giorno comunicai ai Fiori del Male che ero fuori dalla band. Continuai però a frequentare amichevolmente A. e F. ancora per molti anni, sebbene non in modo regolare.

.Un bel giorno del 1981 P. ed io decidemmo di andare ad abitare insieme. D'altronde, eravamo inseparabili, quindi cosa avrebbe mai potuto andare storto?
...già, cosa avrebbe mai potuto andare storto abitando in due in 22 metri quadri, in mezzo all'umidità, senza riscaldamento e con un bagno minuscolo?...

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Buona parte di quella coabitazione fu condizionata dal mio egoismo, dettato anche da esigenze di pura sopravvivenza: io frequentavo la scuola per educatori specializzati e lavoricchiavo, mentre P. aveva un lavoro full-time e guadagnava uno stipendio vero e si sarebbe accollata le spese maggiori; inoltre lei poteva contare sull'appoggio dei genitori [i quali non presero per niente bene la nostra coabitazione] che la rifornivano di cibo ed eventuale aiuto economico. Del quale beneficiavo anch'io.
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L'idillio durò in effetti pochissimo. Ma prima della rottura successero cose davvero importanti. 
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Un collega di lavoro di P. conosceva uno che aveva una punk band e cercava un batterista. 
P. ed io frequentavamo le lezioni di batteria di Fiorenzo Sordini, un bravissimo batterista jazz torinese. Io ero bravo, P. teneva - bene - il tempo, però non aveva molta fantasia. Comunque P. si propose come batterista per la punk band di cui sopra.
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Poco tempo dopo il bassista della band in questione si tirò fuori dal gruppo e io colsi l'occasione per propormi come sostituto. Dato che imparai in pochissimo tempo i giri di basso dei brani, anzi a dire la verità li migliorai e li arricchii, venni subito preso. 
Quel famoso "talento" personale di cui ho già parlato, che mi permette di possedere quasi subito uno strumento musicale, fece la sua bella impressione. Infatti fino a quel giorno non avevo mai preso un basso in mano.
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Certo, per me si trattava di una soluzione un po' di ripiego in quanto mi consideravo un batterista, ma in realtà non mi pareva vero di poter finalmente militare in una punk band consapevole. La band decise di chiamarsi Quinto Braccio, come il braccio dei detenuti politici di un famoso carcere speciale italiano. Già dal nome si capisce che la connotazione intendeva essere strettamente politica.

.La band era formata da S. alla voce, T. alla chitarra [anche lui lo ritroveremo più in là], P. alla batteria e il sottoscritto al basso. Provavamo in un garage di proprietà di uno dei primi skinhead torinesi, facente parte dei Rough, mitica oi!/skin band. 

.Il gruppo era guidato, direi più propriamente comandato, da S. il cantante e autore della maggior parte dei testi, che erano cantati rigorosamente in italiano. Professava idee anarchiche e la band si trovò, volente o nolente, a essere classificata come "anarcho-punk", mentre in realtà - nonostante tutti fregiassimo i nostri giubbotti di pelle con le "A" cerchiate simbolo dell'anarchia, io ero comunista mentre T. e P. all'epoca non erano particolarmente interessati a essere classificati in ideologie politiche definite.

5° Braccio in concerto - Orlando Furioso, basso (Torino, 1982)
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Musicalmente e come attitudine eravamo oramai abbastanza lontani dal Punk 77: cominciavano infatti ad arrivare anche in Italia i primi sentori dell'hardcore punk, corrente musicale e - in parte - politica originatasi negli Stati Uniti alla fine degli Anni 70/inizio degli Anni 80, contraddistinta da un vertiginoso aumento della velocità di esecuzione, soprattutto a carico della batteria, voce urlata e sgraziata ma sempre "a tempo" con la progressione dei riff, accordi in progressione velocissima, potenza e volumi portati all'eccesso, testi al 99% di argomento "sociale/politico" o introspettivo/personale.
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Come ho scritto poco fa l'hardcore fu un fenomeno non solo musicale, ma anche in parte politico; nacque negli Stati Uniti da ragazzi della piccola-media borghesia bianca, ma ogni scena locale, in quasi ogni parte del mondo, lo plasmò e lo trasformò a seconda delle esigenze, caratteristiche e sensibilità del luogo, quindi la sua politicità variò da situazione a situazione.
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In Italia l'hardcore divenne subito, indubbiamente, un fenomeno anche politico, oltre che musicale e così come negli USA, anche qui le persone furono più o meno sincere, più o meno convinte degli slogan politici che permeavano le canzoni, i volantini, i concerti, i muri. L'hardcore italiano diede anche vita a una serie di occupazioni/autogestioni di spazi (alcuni dei quali ancora esistenti) in cui suonare e fare altre attività senza compromissioni con il sistema commerciale della musica.
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Come meglio far capire cosa fosse l'hardcore se non facendovi ascoltare la migliore hardcore band di tutti i tempi? Eccoli qui sotto. Alzate il volume.
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nonostante l'hardcore sia stato un fenomeno bianco e boghese, 
la più grande hardcore band era formata da afro-americani: Bad Brains (New York - 1979)
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Come Quinto Braccio (scritto anche 5° Braccio con caratteri e simboli particolari, come potrete vedere più avanti) avevamo alcuni pezzi nostri e in più facevamo diverse cover di bands come Black Flag, Flux of Pink Indians, Crass, Blitz e altre che ora non ricordo.
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La presenza di una donna - P. - alla batteria ci rendeva una band particolare, dato che  in Italia erano ancora pochissime le punk band femminili o con componenti donne. Noi però all'epoca non ci rendevamo conto di ciò e questa è una considerazione fatta a posteriori. Anzi quando silurammo P. dal gruppo ricevemmo alcune critiche, probabilmente giustificate, da alcuni membri dei Raf Punk[la punk band italiana che io ho amato di più] che ci dissero che era importantissimo non rendere il punk un'altro "genere" esclusivamente maschile e, conseguentemente, maschilista. 
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Nel frattempo facevamo concerti e, senza averne la minima coscienza, stavamo diventando uno dei "miti" dell'hardcore punk nazionale.
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Quinto Braccio dal vivo a Feltre (UD), 1982
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Prima di cambiare la formazione del Quinto Braccio, rendendola totalmente maschile, registrammo 4 brani su 4 piste in uno studio economico della città. Per tutt* noi era la prima volta in un vero studio di registrazione e l'esperienza, per me, fu tutt'altro che esaltante. 
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Al di là dell'ego "ferito", visto che in quelle registrazioni il mio basso non si sente proprio per niente, fu proprio il contatto con una struttura in cui la musica è intesa, ovviamente, come fonte di guadagno a disgustarmi, letteralmente. Oltretutto i gestori dello studio di registrazione ci guardavano come fossimo fenomeni da baraccone, ridacchiando alle nostre spalle per i motivi più futili (da "ma guarda che capelli!" a "minchia, ma quante cazzo di spillette hanno?". Gente simpaticissima.)
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Uno dei brani registrati lo potete sentire, a vostro rischio, qui sotto: Mai Più Tortura Nelle Galere, Quinto Braccio, Torino -1981 (P. batteria, T. chitarra, Orlando basso; S. voce):
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Quinto Braccio: Mai Più Tortura Nelle Galere, [demo1981]
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Le dinamiche interne alla band erano piene di tensioni, la maggior parte delle quali non furono mai espresse in modo chiaro, se non quando dicemmo a P. che era fuori dal gruppo e quando ci sciogliemmo, un paio d'anni dopo.
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Come ho detto la band era diretta, o comandata come preferisco pensare, dal cantante S. e, in parte, dalla sua compagna M. che pur non facendo musicalmente parte della band era un'amica e ci aiutava molto in tutto ciò che riguardava il gruppo.
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Dall'altra parte T. e io eravamo sempre più stanchi degli slogan gridati e francamente poco "vissuti" a livello individuale: personalmente, tra un'attacco di panico e l'altro, era difficile per me impegnarmi veramente "contro il potere", ero troppo impegnato a cercare di sopravvivere, anche perché a differenza di molti degli scanditori di slogan del punk italiano, non venivo mantenuto dai genitori, ma dovevo anche provvedere in modo per altro assai complicato al mio stesso mantenimento.
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Comunque alla fine senza troppe cerimonie silurammo P. e io finalmente subentrai alla batteria, il mio strumento d'elezione. La "scusa", perché vista oggi di quello si trattò, era che lei non fosse abbastanza "politicizzata". D'altronde nel Quinto Braccio vigeva una vera e propria linea politica e deviare da quella non era concepibile, pena la fine della band o, appunto, l'espulsione. 
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Io, Ipocrita Numero Uno, ero felice di riappropriarmi finalmente dei miei adorati tamburi e di aver contribuito ad eliminare dalla band la mia odiata oramai-quasi-ex-coinquilina, con la quale le tensioni dell'abitare insieme erano arrivate a livelli intollerabili per entrambi.
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Quinto Braccio seconda formazione:
F. (di schiena) al basso, Orlando (mohicano) alla batteria (Torino, 1982)
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Dopo aver cacciato P. dal Quinto Braccio e dopo che lei se ne andò sbattendo giustamente la porta dai 22 metri quadri senza riscaldamento (topaia nella quale continuai ad abitare da solo sino al maggio del 1983) ci trovammo di fronte il problema di trovare un bassista che rispondesse ai requisiti della band. [Per la cronaca: da allora non rividi mai più P.]
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Devo dire che nonostante a Torino in quel periodo il "giro" punk si fosse allargato moltissimo, non ricordo ci fosse proprio la coda per entrare nella band...
Così a me venne in mente quel F. bassista-cantante dei Fiori del Male di cui sopra. 

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F. non era esattamente un mostro al basso, ma si impegnò tantissimo e con una dedizione encomiabile e, bene o male, imparò i brani e con la nuova formazione effettuammo alcuni memorabili concerti.

Come pre esempio quello a Torviscosa, di cui un'estratto registrato pessimamente si può ascoltare qui sotto:
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Quinto Braccio: Occupazione - live Torviscosa (UD), 1982

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Devo dire che la narrazione si sta facendo più lunga di quanto credessi quando ho iniziato,: aggiungo continuamente cose, ricordi, considerazioni e i pezzi, già scritti, si stanno allungando parecchio; ma mentirei se dicessi che mi sta dispiacendo scrivere queste cose...
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Per ora finisco qui, il prossimo capitolo tra pochissimi giorni.
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Note:
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[1] Nel 1979 gli attacchi di panico non erano "di moda", non se ne parlava, le "persone comuni" quasi non sapevano cosa fossero, non comparivano articoli sui giornali né trasmettevano servizi in tv nelle rubriche sulla salute. Stessa cosa per la depressione. Tutto rientrava nella pietosa dicitura "Esaurimento Nervoso" e se non si faceva parte di una classe sociale un minimo agiata, non si avevano gli strumenti per affrontare questo tipo di disagi. Questo per dire che ci si vergognava di confidare a qualcuno di soffrire di attacchi di panico (che comunque non si chiamavano ancora in quel modo) e li si viveva quindi in completa solitudine e in tutta la loro drammaticità, esagerata dall'ignoranza e dalla vergogna.
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Quinto Braccio live a Feltre (1982)



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Il mio Quarantennale del Punk - pt. 3

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Manifesto per il"Concerto contro la disperazione urbana" - Torino, 1982



<<< VAI ALLA PRIMA PARTE<<<




<<<VAI ALLA SECONDA PARTE<<<















Eravamo rimasti alle tensioni all'interno del 5° Braccio[1] e a quelle in casa con P., e queste ultime mi par di capire abbiano suscitato un po' di più che legittima curiosità.

Ma prima di cominciare con la mia - a quel punto già disastrosa - coabitazione con P., ormai ex batterista del 5° Braccio, coabitazione che continuò per alcuni mesi dopo la sua cacciata dalla band, vorrei però raccontare brevemente dei primi concerti punk torinesi, cui partecipai anima e cuore (e corpo). [Perdonate il disordine narrativo, ma mi rendo conto che nel precedente scritto ho trascurato di parlare di alcune cose importanti e non amando manipolare/correggere quanto ho già pubblicato, le inserisco ora.]
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La prima cosa da dire è che nel 1982, insieme al 5° Braccio, al siluraggio di P. dalla band e al nascere, veloce, di una nuova "scena" torinese, arrivarono anche nuove amicizie, la più importante delle quali fu quella con PS., una ragazza di qualche anno più giovane di me che da allora divenne una delle figure importanti della e nella mia vita. [Ebbene sì: siamo amici ancora oggi, anzi è la mia più cara amica, una delle persone che meglio mi conoscono.]. Anche se PS. non sarà continuamente citata, dovete immaginate che in ogni cosa che racconterò lei era presente. Non solo: parte dell'iconografia a corredo di questi miei scritti proviene da lei, che è realmente memoria storica di una parte importante del punk italiano.
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il 5° Braccio visto di spalle...
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La dimensione amicale era, o così credevo allora [2], una componente importante della "scena" punk torinese, e italiana in generale: le persone dovevano avere idee politicamente affini ed essere amiche le une con le altre. Andava stravolto il concetto in uso nelle altre "scene", in primis quella musicale mainstream, o peggio ancora mainstream-wannabe, dove ciò che importava erano solo il successo, la fama, il denaro, tre cose che la scena punk torinese e italiana disprezzava. 
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Dunque nuove amicizie e - oltre alle panchine di Piazza Statuto, storico ritrovo dei punk torinesi - una nuova "mini-sede provvisoria" in cui un ristretto nucleo di persone, il 5° Braccio, PS. e poche/i altre/i, si trovava per chiacchierare e progettare concerti e fanzine: casa mia coi suoi 22 metri quadri scarsi e l'umidità del Mato Grosso a farci perenne compagnia.
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Poco più tardi i punk "anarchici"[le virgolette perché, come già detto, non tutti eravamo davvero anarchici, ma per vari motivi - tra cui la "comodità" di definirsi come il resto del gruppo - ci portava a non indagare troppo su quell'aspetto; c'è però da dire che al di là dell'ideologia le amicizie con i compagni anarchici erano per la maggior parte reali e sincere] trovarono davvero una sede per le riunioni e per progettare le iniziative, e fu la sede degli anarchici di Via Ravenna. Lì avvennero le riunioni sui concerti da organizzare, le band da invitare e soprattutto lì avvennero le, spesso interminabili, discussioni su chi poteva suonare ai concerti e chi no.
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Disforìa: una delle prime fanzine del punk torinese,
concepita e assemblata nei 22 mq di casa mia
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Se da un lato capivo e capisco bene che in un'iniziativa autogestita connotata politicamente fosse e sia importante invitare chi ha una certa affinità col "progetto generale", dall'altro lato viste col senno di poi quelle riunioni mi appaiono ora come censorie, discriminatorie e un po'"staliniste": perché se è giusto non invitare a un concerto band destrorse o politicamente troppo ambigue, non è però giusto chiedere "professioni di fede"[quanto "sincere" lo si può immaginare] a band formate da persone con cui, prima di tutto, c'era amicizia.
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Bisogna tenere conto che in quegli anni a Torino - e in generale dappertutto - era molto difficile suonare dal vivo e organizzare concerti, quindi escludere una band aveva un'importanza che trascendeva la "dimensione politica".
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Luca Abort (1964 - 2000) cantante dei Blue Vomit
al "Concerto contro la disperazione urbana", Torino, 1982
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Nel frattempo non avevo un amore, frequentavo il corso triennale per educatori, facevo il tirocinio nei servizi pubblici e continuavo a lavoricchiare e continuavano gli attacchi di panico. Mangiavo poco, anzi pochissimo, sia detto senza voler impietosire nessuno o "farla troppo tragica", ma facevo quattro/cinque pasti alla settimana, e infatti pesavo poco più di 70 kg [sarà per quello che ora sono un ciccione golosissimo?...].
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Mio padre ogni tanto veniva a trovarmi nei miei terribili 22 metri quadri e insisteva perché andassi almeno mangiare a casa loro (una volta pianse anche, e fu l'unica volta in vita mia che lo vidi piangere, preoccupato nel vedermi così magro e "trasandato", per non dire di quell'obbrobrio di casa...), ma io ero troppo orgoglioso, e anche arrabbiato con lui perché "non si era mai accorto della mia situazione di disperazione e della vita di inferno che i miei attacchi di panico mi procuravano".
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Quel mio essere così povero, magro, e sistemato in una stamberga (altro che "precario"...) era il mio grido di indipendenza e di libertà. Povero, affamato, ma libero. Non che fossi un "eroe romantico", anzi: per le persone della mia generazione era un valore comune e condiviso l'essere indipendenti dai propri genitori, era come il Vero punto di partenza della propria vita, il vero inizio della crescita individuale e personale.

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Orlando, batterista del 5° Braccio - Torino, 1982
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Organizzavamo i primi concerti in un "centro d'incontro", quello del quartiere Vanchiglia (subito soprannominato Vankiglia, perché la "k"è sempre più ribelle e rivoluzionaria della "c", come già i beatniks sapevano), ma prima di entrare più nel dettaglio, faccio un passo indietro e torno alla drammatica fine della coabitazione tra P. e me. Che so essere la cosa che interessa maggiormente. :)
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Dunque l'aria in casa era oramai irrespirabile: oltre a vivere nella stessa stanza senza parlarsi se non per le comunicazioni di servizio, in quel periodo - vivaddìo! - ero riuscito ad avere qualche "contatto ravvicinato" con qualche giovanotto che però si poteva mettere in atto solo se P. se ne andava a fare un giro e, data l'atmosfera, capitava sempre più spesso che per dispetto - o perché fuori c'era brutto tempo -  P. non si rendesse disponibile ad uscire di casa, quindi i miei "contatti ravvicinati" sfumavano, con comprensibile risentimento [è un eufemismo] da parte mia. 
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Fino a che un "bel" giorno, quello del mio compleanno, P. mi fece trovare un biglietto d'auguri sul tavolo, cosa che io - in quell'atmosfera di odio che oramai regnava sovrana tra noi - interpretai come pura presa in giro (e credo che non fossi troppo in errore). Quindi le dissi testualmente che "poteva prendere quel biglietto, arrotolarlo e ficcarselo su per il culo"e credo proprio che furono le ultime parole che le dissi.
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Simone, chitarrista dei Blue Vomit, di spalle Luca Abort,
al concerto "Contro la disperazione urbana" - Torino, 1982
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Oh se me la fece pagare.
Se ne andò, senza portarsi ancora nulla delle sue cose, e andò a disdire il contratto d'affitto dei 22 metri quadri di quell'orrida stamberga (contratto che era a lei intestato) senza dirmi nulla, confidando a una vicina di casa che "così il padrone di casa mi avrebbe trovato lì abusivamente e mi avrebbe buttato fuori", ah-ha. La vicina di casa però era una persona sensibile e venne, in lacrime, a confidarmi tutto quanto.
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Io per prima cosa presi un taglierino e rigai in modo orrendo tutti i dischi di P., poi le pisciai sui vestiti, andai a camminare con gli anfibi sul fango e con gli anfibi infangati calpestai ogni cosa che P. aveva poco accortamente lasciato in casa. Non sono affatto orgoglioso di quanto ho fatto, ma comprendo la rabbia che avevo addosso e, come dire, un pochino mi giustifico.
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In fretta e furia, supplicando qualche amico di aiutarmi, caricai i quattro "mobili" che avevo e li stipai in un magazzino che un amico gentilmente acconsentì a prestarmi, il medesimo amico mi ospitò per un mese a casa sua, mentre io contattavo il padrone di casa dicendogli che "avevo saputo che la monocamera di via S. si era liberata e se, insomma, me l'affittava". Il padrone di casa fu felicissimo di trovare un altro scemo che andasse ad occupare quella topaia e ovviamente provvide subito ad aumentarmi l'affitto.
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Di nuovo in fretta e furia riportai le mie quattro cose nella topaia, dimenticai P. e finalmente torniamo ai concerti e a quello che accadde dopo.
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5° Braccio, Torino, 1982
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La mia reale e mai ostentata povertà - non potevo permettermi nulla: una volta pagato affitto e bollette non mi rimaneva in tasca niente - non mi impediva però di essere al corrente di tutto ciò che di nuovo accadeva nella scena punk italiana e mondiale.
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Già da un paio d'anni il chitarrista del 5° BraccioT., aveva avuto la geniale idea di diffondere la musica punk tramite cassette duplicate in casa una per una, con copertine fatte in casa anch'esse (prodotte con un instancabile lavoro manuale di collage, disegni, scritte; viste oggi sono realmente dei piccoli capolavori!), vendute a prezzo politico, ossia quanto bastava per coprire le spese di cassette vergini e le fotocopie. Eravamo veramente bravi/e a produrre cose così belle con quel poco o niente che avevamo. Ricordo interi pomeriggi e serate passate a tagliare i fogli A4 delle fotocopie, perché da ogni foglio ricavavamo 4 copertine.

Quelle cassettine erano spedite letteralmente in tutto il mondo [e oggi sono ricercatissime al mercato del collezionismo] e ovviamente una volta spedite perdevamo il controllo della musica in esse contenuta, al punto che un brano di una di quelle cassettine registrate con mezzi di fortuna, entrò - al 14° posto - nella classifica indipendente inglese nel New Musical Express: si trattava di un pezzo scritto da me, eseguito coi Fiori del Male, di cui ho parlato nel precedente capitolo.
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Questa è una delle cassette che ci autoproducevamo e che ha fatto il giro del mondo. 
E' un pezzo, non secondario, della storia del punk. Torino 198X (Torino, 1982)

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Noi punk torinesi, o punx come preferivamo firmarci, per differenziarci dal "punk 1977" visto oramai come un fenomeno commerciale e perfettamente inglobato nel sistema dell'industria dell'intrattenimento (quindi reso completamente innocuo) avevamo preso possesso, non formalmente ma di fatto, di un centro d'incontro, uno di quei luoghi normalmente abbastanza squallidi che rappresentavano i rimasugli, perfettamente inglobati nel sistema (anzi: si rivelarono laboratori "sui giovani" a nostra stessa insaputa) di quelli che qualche anno prima erano stati i Circoli del proletariato giovanile, che erano luoghi di aggregazione giovanile fortemente politicizzati e che vennero brutalmente chiusi e cancellati. [QUIuno dei pochi link che sono riuscito a trovare]
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La sinistra istituzionale, i partiti e gli enti locali avevano provveduto a cacciare i facinorosi, a ri-appropriarsi degli spazi occupati e a inserirvi degli animatori culturali, in pratica dei controllori travestiti da amici. In queste strutture la funzione di controllo era innegabile, al di là della buona fede o meno degli animatori direttamente interessati.
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Comunque la maggior parte di noi punx era in buona fede e ci si faceva, come dicono i francesi, un culo così per organizzare concerti, formare band, provare, scrivere e assemblare fanzine, tenersi in contatto con le altre "scene" italiane ecc. ecc. Tempo per annoiarsi non ce n'era davvero. Inoltre suonavamo spesso in giro, esclusivamente in posti occupati o comunque in situazioni autogestite.
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D.D.T. (Distorsione Di Torino), concerto"Contro la disperazione urbana" - Torino, 1982
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L'organizzazione dei concerti in particolare era piuttosto impegnativa, ma i risultati superarono sempre le più ottimistiche aspettative.

Nel centro d'incontro di Vankiglia, oramai la nostra "base", oltre alla sede degli anarchici di via Ravenna, veniva allestita una sala per la stampa in serigrafia dei manifesti che pubblicizzavano il concerto [quello del concerto "Contro la disperazione urbana" lo potete vedere come prima immagine di questo scritto, lì sopra] e coi quali tappezzavamo le zone strategiche della città e non c'era nessuna scusa per il disimpegno: se non ti "sbattevi" per il concerto, la tua band non avrebbe suonato. Metodo meritocratico che mi troverebbe perfettamente d'accordo anche oggi e che non ha nulla a che vedere con la "meritocrazia" classicamente intesa, ma più con la concezione marxista del "da ognuno/a secondo le sue possibilità".
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Prima, naturalmente, si contattavano le band che venivano da fuori città, quando non da fuori Italia, come quando vennero gli MDC da San Francisco e alcuni membri della band li ospitai per la notte a casa mia.
Poi si noleggiava l'impianto sonoro. E infine si aspettava con ansia il giorno del concerto.
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MDC: John Wayne Was A Nazi (dall'album Millions of Dead Cops, 1982)
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Si cominciava a lavorare dal mattino: con scotch pesante univamo le gambe dei tavoloni bianchi: ecco fatto il palco. Arrivava l'impianto sonoro e montavamo l'attrezzatura. Insieme all'attrezzatura spesso venivano anche "i tecnici" proprietari della stessa: proprio durante il primo concerto litigai furiosamente col mixerista, un individuo che trasudava spocchia e antipatia da tutti i pori e che avrebbe voluto essere ovunque tranne che lì. Beh, da un certo punto di vista posso anche capirlo... Quel concerto per lui probabilmente rappresentava un qualcosa di disgustoso, quantomeno di imperfetto. Cercai per tutto il concerto di attaccare briga con lui, ma era solo odioso, non scemo! Si fossimo arrivati alle mani lui avrebbe avuto come minimo duecento punk scatenati contro. In genere io ero tranquillo, probabilmente quella volta ero un tantino sovraeccitato dalla situazione.
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Dopo ore di un'attesa che a me sembrava sempre interminabile cominciavano ad arrivare le persone, tantissima gente, sicuramente troppa per un posto come il salone del centro d'incontro.
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Ogni volta era uno stupore perché in cuor nostro non immaginavamo che a Torino esistessero così tanti punk. Creste colorate, capelli sparati, catene, giubbotti di pelle nera, occhi bistrati, orecchini ovunque, spillette (pins) a migliaia, pantaloni leopardati, "A" cerchiate e, raramente, qualche svastica, i rari proprietari delle quali venivano prontamente cacciati fuori dal concerto. 
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Intermezzo

...e a proposito di svastiche, ecco di seguito un episodio, surreale?, accadutomi nel 1977, che mi è tornato alla mente solo ora.
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Come dicevo nella prima parte del mio Quarantennale, nel 1977 frequentavo il F.U.O.R.I. e un bel giorno portai in sede del Partito Radicale (che forniva la sala per le riunioni e le attività del gruppo) il mio entusiasmo per il punk. Organizzai una festicciola alla buona: mi procurai un giradischi e un po' di bevande e salatini, portai la mia striminzita collezione di album e singoli punk, veci un bel manifestino che attaccai nelle varie sale della sede del PR e il seguente sabato sera molte delle persone che frequentavano il partito si presentarono alla festicciola e ballarono scatenatissimi, e gioiosamente, per tutta la sera.
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Io che quella sera mi ero acconciato per bene (senza alcuna ombra di svastica nel mio abbigliamento, ci tengo a precisare), mi improvvisai dj e, insomma, per farla breve ci divertimmo tutti moltissimo.
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Un paio di giorni dopo uno dei militanti sia del F.U.O.R.I che del PR mi fece trovare un enorme manifesto scritto a mano pieno di invettive nei miei confronti, ed evidentemente anche nei confronti di chi alla festicciola si era divertit*, e che terminava - lo ricorderò fino a che camperò - con la frase: "...vai a fare il punk in Corso Francia 19". [All'epoca in Corso Francia 19 c'era la sede dei fascisti dell'm.s.i.]
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La cosa mi ferì profondamente e mi fece sentire anche molto in colpa. La persona che fece il manifesto, un ragazzo più grande di me, FC, dopo alcuni mesi organizzava feste "punk" e "new wave"nelle discoteche cittadine, con ingresso a (profumato) pagamento.
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Preferisco non aggiungere altro, visto che è un episodio accaduto quarant'anni fa e non avrebbe senso da parte mia recriminare od offendere una persona che non ho mai più visto da allora e che nella e per la mia vita non ha più significato nulla, tranne che un brutto ricordo che, per altro, da anni affiorava più alla mia mente.
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Fine Intermezzo
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Siouxsie Sioux (Londra, 1977)

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Dopo il primo concerto, cui parteciparono band di Torino e di fuori città, come i Raf Punk di Bologna (la mia punk-band italiana preferita di sempre) e gli Indigesti, altra band che all'epoca amavo [3].
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Ci si impegnava moltissimo, credevamo nell'autogestione senza compromessi della nostra musica - io personalmente ci crederei ancora, e se avessi un po' più di energia starei ancora a suonare non per soldi, ma per comunicare e anche divertire - e spendevamo moltissimo tempo per l'organizzazione delle nostre attività (concerti, cassette, lettere, fanzine ecc.).
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Ma c'era una cosa che mi rodeva l'anima, a parte gli attacchi di panico [che mi sembrava mi facessero perdere cinque ani di vita ogni volta che mi accadevano...] ed era il clima quasi stalinista che sentivo si stava instaurando sia all'interno del 5° Braccio sia in generale nella "scena" torinese, nella quale in quel momento il 5° Braccio aveva un peso molto importante.
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La gioia, il divertimento erano visti come un qualcosa di obbrobrioso, borghese, da combattere, venivano negati o se vissuti, erano vissuti con senso di colpa; addirittura ridere era fuori luogo, se non per le battute di chi "contava" all'interno della scena
Per alcune persone, quelle appunto che contavano - e che, va detto, si facevano anche un bel culo per organizzare le cose - ogni comportamento non strettamente politico - come l'assumere droghe, bere alcool, ascoltare musica non-allineata o giocare a rincorrersi in piazza Statuto, era guardato con disprezzo. 
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"In questo mondo di merda - sembrava dicessero - gioire, divertirsi è colpevole, è arrendersi al Sistema..."
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un volantino del 5° Braccio (all'interno vi erano i testi delle canzoni)
Torino, 1982

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Gli slogan di cui erano infarciti i testi delle canzoni del 5° Braccio e di moltissime altre punk band cominciarono a starmi davvero stretti. Erano slogan, non vita, spesso non erano vissuti personalmente, non arrivavano dal cuore né al cuore, per me non avevano nulla di emotivamente significante. D'altronde io ero occupato a sopravvivere alla povertà, alla fame quasi letterale, al mio essere sessualmente non-allineato col machismo che imperava ai concerti e pressoché in tutte le situazioni, all'omofobia, al maschilismo. Dovevo sopravvivere ai miei attacchi di panico e alla mia mancanza d'amore. Cose che al punk anarchico italiano non interessavano minimamente.
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Non ne potevo più del clima quasi disumano che si respirava nella band, non sopportavo più quella musica marziale e, alle mie orecchie, monocorde e davvero troppo, troppo piena di slogan "con la rima".
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Gli ultimi due o tre concerti del 5° Braccio furono l'emblema del mio personale disagio e, credo, anche di quello di T., il chitarrista. 
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Poco prima della fine della band F., il bassista, fu estromesso (un po' si estromise da solo) e al suo posto entrò M., la compagna del cantante, che non sapeva suonare una singola nota di basso e, ovviamente, non poteva certo imparare tutto il repertorio in quattro e quattr'otto. Il risultato degli ultimi due o tre concerti, quelli con questa formazione anomala, furono un totale disastro, al limite della cacofonia

Sebbene io non mi sia mai considerato "un artista"[il termine mi ha, anzi, sempre fatto molto ridere] ci ho sempre tenuto, però, a suonare al meglio delle mie capacità e lo stesso pretendevo da chi suonava con me. Punk finché vuoi, ma con me bisogna suonare bene, cazzo.
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Ovviamente non era assolutamente colpa di M., che anzi si era trovata un po' tra l'incudine e il martello, e anzi si era anche impegnata molto; ma proprio non ci si può improvvisare musicisti/e in un mese, non si possono imparare dieci, dodici brani con uno strumento che non si è mai toccato prima in vita propria [se non si ha la rara "fortuna" di avere un poderoso talento musicale, magari nascosto].
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Ultimo concerto del 5° Braccio (Genova, 1982) - Ero sinceramente disperato
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Dopo il disastroso ultimo concerto genovese T., il chitarrista ed io parlammo a lungo del nostro disagio all'interno della band. Lui e io andavamo d'accordo, ridevamo molto insieme, eravamo in sintonia e trascorrevamo moltissime serate insieme, scherzando, ma anche confidandoci le nostre cose più profonde. Era un vero amico e io volevo davvero continuare a suonare con lui.
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Non fu facile per me dire al cantante e alla bassista che il 5° Braccio non esisteva più e che io e T. ce ne andavamo per suonare altre cose, musicalmente più hardcore e possibilmente più personali e senza troppi slogan politici nei testi. Per me non fu facile perché io mi faccio sempre delle menate di sensi di colpa anche quando non ce n'è motivo, ma soprattutto perché sentirsi disprezzati non è mai bello. Mai.
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Uno degli assiomi delle punk band italiane era che prima che band si è amici, e così i due amici del 5° Braccio sciolsero la band.
E cominciò un nuovo pezzo di storia, che racconterò nel prossimo capitolo [in cui vedremo Adrenalina, Declino, finalmente un amore (breve ma intenso), Negazione, nuove amicizie (e tradimenti) e una seria tragedia].
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Prima di concludere, ecco qui sotto il cd del 5° Braccio, uscito quasi 25 anni dopo lo scioglimento della band. E' registrato con un mangiacassette, a parte i primi quattro brani - con ancora P. alla batteria - che furono registrati su quattro piste. Il resto sono prove in cantina e un paio di brani dal vivo.
Come registrazioni una schifezza, comunque un pezzo di vita molto importante per me, nel bene e nel male. E forse non solo per me.

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5° Braccio: Blackout a Torino - E.U. 91 Produzioni, 2007


[e QUI, se proprio sei interessat*, una recensione al suddetto cd]


...continua...
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Note: 
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[1] Noi eravamo in quattro, registrammo quattro brani su quattro piste in quattro ore. Stan Lee ci avrebbe potuto fare un fumetto di successo!
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[2]"O così credevo" perché poco tempo dopo scoprii dolorosamente, direttamente sulla mia pelle, che il concetto di amicizia era molto più teorico che pratico, ma su questo tornerò più avanti...
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[3] Altro gruppo che adoravo erano i Wretched di Milano, puoi ascoltarli qui sotto:





Spero venga la guerra

Solo allora capirai che potevi far qualcosa

Spero venga la guerra
Con i suoi orrori e le sue stragi

Solo allora capirai che potevi far qualcosa

Parlano di benessere, di pensare al tuo futuro
Ma sarai soltanto tu a pagare i loro errori
Per colpa di bastardi viviamo per morire
E tu sei come loro incapace di pensare.
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Wretched - "Spero venga la guerra" - Milano, 1982





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Il mio Quarantennale del Punk - pt. 4 - FINE

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<<< PARTE 1 <<<                                     <<< PARTE 2 <<<                                   <<< PARTE 3 <<<

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Ero rimasto allo scioglimento del 5° Braccio. E avevo promesso: "AdrenalinaDeclino, finalmente un amore (breve ma intenso), Negazione, nuove amicizie (e tradimenti) e una seria tragedia. Ed eccole qui sotto, in ordine sparso.
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La scena punk "anarchica"[1] torinese frattanto cresceva in tutti i sensi: nuove persone ingrossavano le fila delle band e non solo e si moltiplicavano le iniziative, dai connotati sempre più marcatamente politici.
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Anche i contatti tra le varie scene italiane si moltiplicavano ed era sempre più frequente trascorrere i week-end fuori città, per andare a suonare da qualche parte (Milano, Bologna, Carpi, Udine...) o per assistere a qualche concerto.

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Attack, fanzine realizzata dai miei amatissimi Raf Punk di Bologna
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Aumentavano i dischi e le cassette autoprodotte dalla band torinesi e italiane, aumentava la consapevolezza musicale (non solo quella politica) e molte band cominciavano a dettare nuovi stilemi che avrebbero influenzato band di tutto il mondo e anche di altri generi musicali [2]
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Insomma, aumentavano esponenzialmente i contatti tra le persone ovviamente tenuti con mezzi che oggi sembrano risalire all'età della pietra (carta e penna, buste e francobolli, pacchi e pacchetti e tante file agli uffici postali...)
E la maggior parte dei viaggi si effettuavano in treno.
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Chi ha qualche esperienza, anche indiretta, con gli attacchi di panico sa bene che ci sono ben poche cose più devastanti e scatenanti di un viaggio...
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Tutti - tutti - i viaggi che feci all'epoca, che fossero in treno o in auto o in autostop, che fossero brevi (ad esempio al Virusdi Milano) o più lunghi, che fossero fatti con persone che amavo o che detestavo, che parlassi e scherzassi, mangiassi o bevessi, che guidassi io l'auto o che fossi trasportato, ogni viaggio fu per me un'agonia.
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Fiato corto, cuore a mille, fame d'aria, un'orribile, irrazionale paura (di cosa non era dato sapere; di morire, forse?...) che rendeva le pareti della mia gola dure come la pietra.
E nessuno - nessuno degli amici/amiche o sodali di band - sapeva nulla di tutto ciò.
Forse qualcuno intuì, e se così fu si guardò bene dal farmene parola.

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Corteo a Milano. Io sono quello con la scritta Black Flag sulla manica del giubbotto. (1983)
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Dunque, eravamo oramai in pieno 1983 e poco dopo lo scioglimento del 5° Braccio, il chitarrista T., la mia amica PS. ed io, formammo una band che purtroppo durò lo spazio di un unico brano - Presagio di Morte - registrato col mangiacassette e finito in una delle compilation che fecero il giro del mondo.
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Delle Adrenalina, questo il nome scelto per l'estemporanea band, facevano parte oltre a T. ed io alle chitarre, PS. alla voce, L. (una ragazza) al basso e M. alla batteria.
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Come strumentisti L. ed M. erano assoluti principianti, mentre T. e io ce la cavavamo alla grande con le chitarre e PS. aveva una voce da far invidia alle cantanti dei Crass!
Il brano, musica mia e testo della cantante, mi piaceva moltissimo e adorerei risuonarlo e registrarlo in modo appena un po' più "professionale". Chissà se riuscirò mai a realizzare questo piccolo sogno.

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So che aspettate che parli dell'amore e quindi comincio, visto che ha a che fare con le Adrenalina, il cui batterista era M., un ragazzo un po' più giovane di me di cui ebbi la sventura di innamorarmi la prima volta che lo vidi.
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Non so dire se fosse brutto o bello [probabilmente se vedessi oggi una sua foto dell'epoca non mi piacerebbe; i miei gusti in fatto di uomini sono parecchio, parecchio mutati negli ultimi 35 anni...], so solo che appena lo vidi provai per lui un sentimento che non provavo più da anni. 
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Non ho mai capito se lui fosse gay, se lo fosse "in parte", se fosse una persona "indecisa" oppure se fosse decisamente gay e non lo accettasse del tutto o infine se fosse solo curioso di provare qualcosa di nuovo...
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Brano meraviglioso cantato da Gary Floyd uno dei primi gay dichiarati 
della scena punk americana, voce dei Dicks (band comunista!): 
"Hate the Police" (1980)

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Non erano solo gli attacchi di panico ad angustiarmi la vita in quel periodo, ma anche un'autostima prossima allo zero. Cosa può accadere a una relazione tra una persona chiusissima, cupa, paranoica, nero dentro e fuori, flirtante con l'autolesionismo - lui - e una persona ansiosissima e con autostima zero, convinta di essere orrenda [3] - io?
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Una relazione tra due persone così non poteva che essere breve e risultare disastrosa, lasciare strascichi pesanti e ricordi dolorosi.
Oltretutto io vivevo nel terrore di ciò che, per certo e quasi scientificamente, sarebbe avvenuto, ovverosia il termine burrascoso della nostra relazione.
[In effetti a quel tempo non ero in grado di pensare di poter meritarmi qualcosa, come per esempio l'amore].
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La scena punk torinese era omofobica e maschilista [4].
Oh certo, nessun frocio è mai stato picchiato dai punk torinesi (almeno non che io sappia), ma non ho mai considerato l'omofobia come una questione di pura violenza fisica.
"Frocio" e "ricchione" erano gli insulti più gettonati. E quando qualcosa andava storto "ce lo si era preso nel culo". ["Vabbè, maddài, son solo parole! Non sarai mica uno di quei rompicoglioni del"politicamente corretto", eh?"]
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M. e io eravamo guardati con un misto di stupore, disgusto e pena. 
D'altronde il punk all'epoca era una cosa maschia e virile, anzi macha addirittura e le ragazze e le donne del punk dovevano "avere le palle".
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CRASS: "Penis Envy" (UK, 1981) - I Crass sono stati la mia punk band preferita in assoluto. Questo album in particolare è una feroce critica al maschilismo/machismo e al sessismo.
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Due uomini che andavano a letto insieme erano una curiosità e anche una cosa un (bel) po'disgustosa e in quel periodo a parte la mia amica PS. nessuno, nessuno, nessuno mi chiese qualcosa di quella relazione: come stava andando, se stavamo bene o qualsiasi altra cosa. Omofobia ferocemente silenziosa.
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Nel frattempo T., l'ex chitarrista del 5° Braccio, e io ci guardavamo intorno perché eravamo tenacemente determinati a formare una grande hardcore punk band che fosse velocissima, potente e con testi autentici, vissuti e senza slogan in rima.
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Avevamo già improvvisato parecchio materiale in "sala prove", ma essendo solo chitarra e batteria bramavamo di avere un basso e una voce per poter, finalmente, partire col nostro progetto.
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All'ultimo concerto del 5° Braccio - che si era svolto a Genova - prima di noi aveva suonato un gruppo nuovo, di Torino, che né io né T. il chitarrista avevamo mai sentito nominare e di cui non conoscevamo i membri.
Avevano un nome orrendo - Antistato o Anti-Stato, non ricordo - ma ci colpì moltissimo il cantante. Aveva una voce bassa e potente, gutturale e con un bellissimo timbro.

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Si chiamava Z. e una sera lo invitammo a bere una birra per proporgli di fare una band con noi: lui alla voce, T. alla chitarra e io alla batteria.
Ci rispose che ci stava, ma solo se prendevamo anche il bassista degli Antistato, M.
Ci rimanemmo un po' di merda, perché sia io che T. eravamo rimasti colpiti in negativo da quanto male suonasse il basso questo M. ... Io soprattutto lo trovavo proprio terribile: non aveva orecchio né intonazione e maneggiava il basso come se fosse qualcosa che non c'entrava nulla con lui, un oggetto che gli era totalmente estraneo.
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Non un grande tecnico del basso, ma un grande bassista! Dee Dee Ramone (1951 - 2002)
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Provai a oppormi fermamente e a convincere Z. a lasciare quel pessimo bassista, ne avremmo cercato uno migliore. Z. fu irremovibile e pur di avere lui nella band, accettai anche il pessimo bassista.
La storia diede"ragione" a loro: T., Z. e M. diventarono la più famosa punk band italiana del pianeta.
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Gli inizi coi Negazione - questo il nome che scegliemmo per la band - furono comunque entusiasmanti perché per la prima volta dopo molto tempo mi sentivo libero, libero di suonare come mi piaceva, libero di esprimermi e di esprimere le mie idee senza timore di censure o "disprezzi" vari. La band era veramente una democrazia: quattro teste pensanti, una testa valeva una testa, nessuno prevaricava nessuno, il clima era caldo e amichevole. Finalmente.
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Come batterista ero diventato una specie di fenomeno: per essere un autodidatta ero un mostro, velocissimo, preciso, un metronomo vivente, un terremoto che non sbagliava un colpo. So che venivo considerato uno dei migliori batteristi hardcore italiani. [So che non è carino lodarsi, ma quando ci vuole, ci vuole]
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Forse fu per questo che un'altra band chiamata Declino mi volle, anzi mi pretese, come batterista in condivisione coi Negazione. Mi fu comunicato che io ero anche il loro batterista. Un po' per scherzo, un po' perché tremendamente lusingato, accettai di suonare anche coi Declino. In fondo cos'era suonare con due band per uno dei batteristi migliori della scena?
Bastava che nei concerti mi fosse dato il tempo di riposare un po' tra le due band, insomma che non facessero suonare Negazione e Declino di seguito, perché probabilmente sarei morto per collasso cardiaco.
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NON POSSEGGO ALCUNA FOTO 
CHE MI RITRAGGA COI DECLINO E/O COI NEGAZIONE
SORRY...
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Del mio periodo passato coi Negazione non esiste granché come documento sonoro eccetto alcuni brani presenti in una cassetta compilation (che comunque ha girato il mondo), ma di qualità veramente pessima, purtroppo. Non vorrei esagerare con l'autoincensazione, ma è proprio in quei brani, però, che ho dato il massimo come batterista hardcore: onestamente, più veloci e precisi e potenti di così era impossibile, e sarebbero dovuti arrivare, qualche anno dopo, i blast beat del Death Metal e del Black Metal per concepire una velocità maggiore di quella. 
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Nonostante la qualità veramente pessima di quelle registrazioni, ci sono persone appassionate di quel glorioso periodo hardcore che, dagli USA, ne hanno tratto un "bootleg" in vinile! Purtroppo il vinile è sold-out, altrimenti me lo sarei comprato, anche perché quando ne ho vista la pubblicità on-line, grazie alla mia amica PS., mi è venuta un po' la pelle d'oca: .
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certe citazioni fanno sempre piacere


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Coi Declino invece incidemmo subito un ep [extended play] 45 giri su vinile, autoprodotto dal collettivo Punx Anarchici di Torino.
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Il disco venne registrato in fretta e furia, sempre a causa della cronica mancanza di denaro, su 4 piste e credo non sia stato nemmeno remixato. Sebbene la qualità sonora non sia granché (è un eufemismo...) resta un disco del quale sono profondamente orgoglioso e che mi appartiene molto di più di quanto mi appartengano i ricordi del breve periodo passato a suonare con quella band. 
Eccolo qui sotto: se lo ascolterete - ad alto volume, ovviamente - ne sarò felice.
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La mia storia col Declino durò pochissimo anche perché  non c'era una grande amicizia tra me e gli altri componenti della band: mi sentivo più un session-man che un membro effettivo del gruppo. Non è stata colpa di nessuno, semplicemente non c'era quel gran feeling tra di noi. Ho sempre, però, apprezzato moltissimo i testi della band, composti da S., il cantante; in realtà li apprezzo ancora oggi e me li sento molto vicini... 
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Quindi un giorno li mollai, tornai in pianta stabile per un breve periodo coi Negazione, dopo di che successe una tragedia che mi fece uscire di testa.
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.INTERMEZZO
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Ci fu, nel 2006, una specie di"reunion-per-una-sera" dei Declino con una formazione "monca" (soprattutto mancava il cantante S.): ecco, quello - anche se non c'entra granché con questo mio "Quarantennale" - è un piacevole ricordo perché la serata fu divertente e perché, dopo ventitré anni che non toccavo, letteralmente non toccavo una batteria, dopo quattro ore di prove passate più che altro a ridere e a cazzeggiare, sono stato più o meno in grado di "tenere" una mezz'oretta di concerto più che dignitosamente. Il tutto con una dolorosa, e ovvia, tendinite al polso destro dovuta a quelle improvvise quattro ore di prova di cui sopra...
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In effetti quel mini-concerto è disponibile su youtube, se proprio uno/a volesse farsi del male... Ok, eccolo qui sotto, diviso in due parti:
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(parte dei) Declino al Bloom di Mezzago - 2006 - 1a parte

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2a parte
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FINE INTERMEZZO
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La relazione con M. si interruppe bruscamente, e non poteva che andare a finire così. Lui era sempre più cupo e inoltre gli stavano capitando situazioni per nulla piacevoli in famiglia; io ero ossessivo e ossessionato dall'idea di perdere quell'unico amore che mi era capitato in quegli anni; la relazione era diventata malata, assolutamente non paritaria, ansiogena e depressiva e gli "amici" non facevano certo il tifo per noi. Anzi...

Ma non fu certo questa la tragedia che mi colpì.
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Marzo - Maggio 1983: in nemmeno due mesi persi entrambi i miei genitori.
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A parte i Negazione - cui darò sempre merito per questo - e la mia amica PS., nessuno mi fu vicino in quei momenti. Nessuno fece neppure fintadi essermi vicino.
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Una sera, poco dopo la morte di mio padre, andai alla consueta riunione dei punx anarchici. Nulla so e nulla ricordo di quella sera, se non che, fuori dal portone a fumare c'erano tre persone - ricordo esattamente chi fossero - che sghignazzavano convulsamente e uno stava dicendo: "Minghia oh, prima la madre e poi subito dopo il padre! Ma quello porta proprio sfiga!" e giù a ridere
Chissà, forse era il loro modo per elaborare il (mio) lutto.
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mamma e papà al mare (1981)
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Adesso più che mai era imperativo sopravvivere. Niente di più che sopravvivere, quello era l'obiettivo primario. Non soccombere a tutta quell'angoscia, a quella fame d'aria e alla mia gola che diventava sempre più rigida, così come la mia schiena e le mie gambe.

Mi ritrovai a non riuscire più a dormire. [Tutt'oggi il sonno non è propriamente una delle attività che mi riesce meglio, diciamo così...]Tornai ad abitare nella casa in cui abitavano in affitto i miei, la casa da cui ero uscito qualche anno prima per inaugurare la mia indipendenza.
Beh, almeno non dovevo più gelare d'inverno e subire fin nelle ossa l'umidità di quella squallida topaia di via Salerno..
Mi sentivo più o meno così, come questa canzone qui sotto (anzi no, molto, molto peggio...):.
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Uno dei miei brani preferiti dell'epoca: Kids of the Black Hole, degli americani Adolescents (1981)
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Oltre agli attacchi di panico, sempre frequenti, e all'insonnia, cominciò un devastante periodo di "blocchi" muscolari - di evidente carattere psicosomatico - che mi fece capire molto bene l'idea del dolore fisico. Schiena e gambe erano un grumo di marmo, perennemente doloranti, era faticoso camminare, stare seduto, stare sdraiato; nessun farmaco leniva il dolore. Cominciai una fisioterapia che dopo un po' mi diede molto beneficio e soprattutto, in qualche modo, ridusse la durata del dolore: potevano passare anche parecchie ore di relativa serenità muscolare e quindi potei, parzialmente, tornare a svolgere qualche attività.
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Riuscii a fatica a terminare il corso per educatori specializzati e, non so come, vinsi il concorso comunale per educatore. Di lì a poco sarebbe cominciata la mia [interminabile...] vita professionale.
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Nel frattempo ero diventato molto amico - direi quasi fan - di un ragazzo che suonava in una band che, a mio parere, faceva cose interessanti e aveva interessanti potenzialità e cercava di uscire dagli schemi troppo rigidi dell'hardcore. La band aveva idee che coinvolgevano anche piccole azioni "teatrali" (che con una certa pomposità chiamavamo performances), brani preregistrati da usare in concerto e, insomma, piccole cose del genere che all'epoca parevano il massimo dell'evoluzione.
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...se nel frattempo volete sentire il più bel brano dei Negazione
(no, non ci suono io,  alla batteria c'è Michele Barone): 
Tutti Pazzi, autoprodotto, 1985
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Suonare la batteria era diventato più difficile a causa del dolore alla schiena e desideravo moltissimo tornare a suonare il basso. Senza preavviso mollai i Negazione e cominciai a "corteggiare" il ragazzo di cui sopra per entrare come bassista nella band di cui sopra [che no, non nominerò].
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Da parte mia nacque una profondissima amicizia con quel ragazzo, supportata da un'immensa stima che avevo, oltre che per lui, anche per gli altri due membri della band, per le loro idee, musicali e non. Inoltre tutti e quattro amavamo moltissimo i CRASS.
Entrai nella band e facemmo subito diversi concerti, molto belli, pieni di emozione vera e molto partecipati.
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Capisco che possa sembrare esagerato, ma per me far parte di quella band era, in quel momento di pura tragedia e delirio e profondissimo disagio, l'unica gioia, l'unica consolazione. Mi concentravo sulla band, mi esercitavo al basso, frequentavo gli altri membri della band che, ai miei ingenui occhi di quel momento, mi apparivano come i miei migliori amici. Forse gli unici oltre la cara PS.
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Una sera andammo tutti e quattro in birreria. C'era un po' di silenzio e un certo imbarazzo. Nessuno mi guardava negli occhi. Dopo un bel po' di rimbalzi, del tipo"diglielo tu, no diglielo tu"[asilo nido] mi si disse - senza "una riga di spiegazione" - che ero fuori dalla band. Vualà, fine della storia.
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Quale miglior occasione per ascoltare ancora una canzone 
di uno dei miei gruppi preferiti di tutti i tempi? 
"Big a little A", CRASS (1981, Crass Records)
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All'inizio del 1984 cominciai a lavorare. Cominciai a fare ciò per cui avevo studiato, l'educatore. Lavoravo con persone disabili adulte, anche gravi. 
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Grazie a ciò alcuni degli "amici" punk, tutti rigorosamente mantenuti dalle proprie famiglie, mi chiamarono - sorridendo, eh! - "servo del sistema"
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Pare quasi inutile giustificarsi [eppure una parte di me si sente ancora in colpa]; ma non avendo io nessuno che, come dicono i francesi, "mi parasse il culo"(ovverosia ero solo al mondo e dovevo provvedere a me stesso e no, i miei genitori, economicamente due poveracci, non mi avevano lasciato un soldo in "eredità", ma solo dolci ricordi), dovetti necessariamente diradare ogni eventuale attività musicale e anche i concerti potevo farli solo nel weekend. 
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In effetti il Sistema mi aveva fregato ben bene [sono serio], ma purtroppo non ero portato né per vivere alle spalle altrui né per vivere di espedienti e neppure per intraprendere strade magari più personali, ma rischiose, a causa soprattutto del problemino del panico e del mio profondissimo disagio esistenziale, che mi lasciava appena il tempo di respirare e sopravvivere.
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Così, senza fanfare né fuochi d'artificio e nemmeno feste d'addio, finì uno dei periodi più intensi - e devastanti, e importanti - della mia vita. 
Per oltre un anno, sempre servendo il Sistema accudendo al meglio persone disabili gravi, appesi al metaforico chiodo bacchette e basso e smisi di suonare (esercitandomi comunque a casa, da solo, con la chitarra).
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Nel 1985 il periodo di inattività terminò ed entrai nella più grande hardcore-thrash-metal band italiana di tutti i tempi... ma questa è un'altra storia.
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Grazie davvero a chi ha letto fin qui.
....e ora, torniamo ai fumetti?...
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Il mio Quarantennale del Punk - FINE
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.Note:
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[1] Già spiegato, ma meglio ribadirlo: se talvolta uso le virgolette per il termine "anarchico" associato a "punk" non è per una mancanza di rispetto per l'ideologia anarchica - ricordo che l'estinzione dello Stato sarebbe l'obiettivo, il clou, dell'ideologia/utopia marxista - ma perché molte persone, me compreso, si identificavano con quel tipo di scena e con le iniziative che si facevano pur non definendosi, o non sentendosi, anarchici/che.

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[2] In numerose interviste fatte a band considerate mostri sacri dello Speed Metal, Thrash Metal, Death Metal, Grindcore, Black Metal, Metalcore, Goth, Crust, D-Beat etc. vengono menzionate come grosse influenze musicali non solo band di hardcore punk, ma band ITALIANE di hardcore punk!
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[3] Su questa cosa sì che posso dire di aver fatto uno splendido lavoro! Anni e anni di autoanalisi, un culo nero, ma alla fine la piena, felice accettazione del mio aspetto esteriore, senza forzature né autoinganni. Anzi, non "accettazione", ma amore. Potete stupirvi finché volete, ma oggi io mi trovo bello! :) [Mio marito è d'accordo anche lui]
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[4] Una delle frasi più sprezzanti e umanamente disgustose che mi abbiano mai rivolto in tutta la mia vita mi arrivò da un compagno anarchico... Durante una cena tra "amici" - era il 1984 e si era in pieno delirio aids- il suddetto compagno mi disse, con un tono che nemmeno il peggior parroco reazionario del secolo scorso avrebbe usato:"Ma tu cosa hai intenzione di fare per questo aids?" Al ché io polemicamente gli risposi: "TU piuttosto, cosa hai intenzione di fare?". Lui con un sorriso sprezzante rispose: "Ah, non è certo un mio problema, ma tuo e di quelli come te"
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[5] Se per caso qualcuno scoprisse il motivo della mia cacciata dalla band me lo faccia sapere, grazie. Dopo 34 anni giusto un briciolo di curiosità, lo ammetto, m'è rimasta. 
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Orlando, 1983 (con la band che non mi sento di nominare)



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