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Dieci Lune

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Dieci Lune
vol. 1 – Preistoria

di: Tso (cover), Spugna, Miedo, Oliveri, Cesaratto, Sdolz, Pantani, Barbera, Cammello, Racca, Mancini

a cura di
Simone Angelini
e Marco Taddei

vol. brossurato, 112 pag. b/n

euro 10,00

BAE - Bel-Ami Edizioni

.

“Torniamo alle radici e scopriamo quanto stavamo peggio quando stavamo peggio giacché il peggio è il nuovo benessere” (dall’Introduzione)
.

Ogni produzione fumettistica uscita finora per la Casa editrice Bel-Amiè stata meritevole di attenzione. 
Veramente più che “meritevoli di attenzione” penso siano gioielli di fumetto non-troppo-convenzionale, specie se/quando la cura è affidata agli ottimi Simone Angelini e Marco Taddei, che come gli/le aficionados di Fumetti di Carta sanno già, non ne sbagliano una (vedi QUI e QUI).

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Dieci Lune vol. 1 Preistoria sarà in vendita dal 1° Maggio e verrà presentato ufficialmente al Comicon di Napoli il 4 Maggio alle 18.30 (quindi se siete da quelle parti…); Simone e Marco me ne hanno fornito un’anteprima digitale completa visto che, grazie al cielo, capita talvolta che l’amore sia un sentimento ricambiato.

“[…] questo volume non è solo dieci novelle a fumetti sulla preistoria attaccate una dopo l’altra ma nasconde ben altro” (dall’Introduzione)

In effetti il volume nasconde altro, anzi, in realtà non nasconde: mondi preistorici e sensazioni, le più variegate ma che sempre avranno a che fare con la piacevolezza e lo stupore e il divertimento, ci vengono offerte (o “sbattute in faccia”, va bene uguale) con potenza e intensità come solo il fumetto non-troppo-convenzionale sa e può fare.

Dietro una copertina (di Tso) che ci fa subito capire in che tipo di territori ci troveremo, ci stanno dieci storie a fumetti che saltano fuori dalla carta (dal monitor, nel mio caso…) e ti soffiano una specie di polverina magica negli occhi e nella mente. E qualche pietrata – visto il tema – che però non lascia lividi, ma piacere e desiderio.

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Nove autori e un’autrice (l’autrice è Flavia Barbera, la conosciamo già e io amo il suo stile sin da quando ho letto una sua storia la prima volta) e uno standard generale altissimo. L’altezza dello standard lo si può verificare anche visitando i blog-siti degli autori e dell’autrice: i link sono raggruppati alla fine di questo scritto e assicuro che c’è da restare incantat*.

Dieci storie, dieci stili, dieci modi diversi di approccio a un tema comune e al fumetto, dieci meravigliosi racconti a fumetti che hanno l’unico difetto di essere… solo dieci. Mi consola la scritta al termine del volume: ci sarà un vol. 2 e, forse, anche un vol. 3 e questa è un’ottima notizia.

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Si comincia con Spugna, pseudonimo di Tommaso Di Spigna [ripeto: qui sotto tutti i link agli autori/autrice] che con un tratto fortemente epico e che paga piacevolmente qualche debito kirbyano, ci racconta nientemeno che la nascita della vita organica, frutto di una devastante battaglia cosmica annunciata dal titolo stesso: Roccia vs Carne. Sue le tre belle immagini qui sopra che descrivono una Terra ancora dominato da forze primordiali e antichissime, non ancora pronte per essere surclassate, ma destinate ad esserlo, da nuovi aggregati molecolari che decideranno il destino del pianeta.

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La seconda storia, intitolata Neolithic, è realizzata da Diego Miedo. Due omaccioni primitivi (appunto) scoprono nuove forme di sostentamento e, ahiloro, anche nuove forme di economia, o forse la prima forma di economia in assoluto. Non sarà una scoperta indolore, nonostante l’entusiasmo iniziale.

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Storia molto ironica e disegnata dall’autore napoletano con uno stile che mi ha ricordato un po’ un Alley Oop moderno… o forse genuinamente neolitico, in un bel bianco e nero con molto grigio (retinato?) a dare maggiore profondità.

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Tutt’altro stile narrativo e grafico per Evoluzione di Jacopo Oliveri aka Fatomale (collaboratore di Lok Zine, altra splendida realtà di cui parlerò presto qui sul blog).
La storia di Oliveri, quasi del tutto muta, è una sorta di manuale evolutivo e perciò procede a descrivere i vari stadi e i processi in cui l’intero pianeta è coinvolto.

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Le varie Ere e gli avvenimenti di importanza planetaria vengono riassunti efficacemente in vignette e tavole nelle quali la ricerca di un’estetica geometrico-narrativa la fa da padrona con risultati piacevolmente decorativi, oltre che efficacemente narrativi. Fino a giungere al finale, inaspettato e ironico.

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A seguire: Memorie di un cavernicolo, di Fabio Cesaratto, anch’egli giovanissimo – caratteristica che accomuna tutti gli autori e l’autrice del volume. Cesaratto usa una scansione della tavola molto regolare: sei vignette per tavola tutte di eguale dimensione. Questo tipo di scansione, unito ad uno stile descrittivo lineare e a un disegno particolarmente intellegibile, rende la particolare storia d’amore tra “cavernicoli” cinematografica e proprio per questo l’ho sentita emotivamente vicina alla mia sensibilità di lettore.

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Visionaria e psychedelica, invece, la storia di SDOLZ intitolata (forse, ma non ci giurerei…) Giaciglio Plebiscito Washington, che è il nome del piccolo dinosauro protagonista di questo delizioso racconto, un delirio tutto da gustare perdendosi nelle lunghe frasi dei balloons, ma naturalmente perdendosi ancor più nelle complicate circonvoluzioni dei pazzeschi disegni di SDOLZ!

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Mostri buffi, dinosauri teneri e coccolosi, oracoli, scimmie poco pelose e un sacco di simboli sparsi qui e là nelle pagine, che sono grandi tavole non suddivise in vignette. Un viaggio allucinato(rio) che stimola (molto…) la fantasia e fa rimpiangere la triste estinzione di quei simpatici lucertoloni che dominavano il pianeta un po’ di tempo fa…

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Savana pulpè il titolo del successivo racconto, opera di Enrico Pantani, il – diciamo – “meno giovane” tra gli autori e l’autrice presenti nel volume. (Di Pantani è, tra l’altro, in uscita un libro a fumetti sempre per Bel-Ami).

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Amo il suo stile così piano e apparentemente semplice - o forse è proprio semplicemente semplice – che fa scolpisce il suo fumetto nello sguardo. Savana pulp racconta una storia, con un finale ironico, sia tramite l’autore che tramite il personaggio protagonista, un primitivo particolarmente smaliziato, che sa bene a chi sta raccontando la sua storia.

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La notte delle stelle che piangonoè la storia di Flavia Barbera, autrice che, come dicevo più sopra, già conosco e amo. L’autrice biellese probabilmente è in grado di toccare determinate corde della mia anima, perché ogni suo fumetto è per me un’esperienza di grandissima intensità che va oltre il mio adorare il suo stile e il suo modo di narrare.

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Flavia Barbera forse conosce il metodo per, ogni volta, sconvolgermi, commuovermi, mettermi a parte di qualche arcano segreto che pochi altri fumetti sono in grado di darmi.
La sua storia, una favola antica, racconta di epoche remote in cui misteriosi riti d’iniziazione cambiavano per sempre la vita delle persone. Tutto è avvolto in un’atmosfera a metà tra il cupo e l’onirico. Le sue tavole sono morbide e crudeli a un tempo. Pur essendo io un amante del bianco e nero, non posso non chiedermi come sarebbe una sua storia a colori…

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E’ poi la volta de La città vuota, di Pablo Cammello.
Intensissima e, mi si scusi l’abuso del termine nelle ultime righe, profondamente commovente. L’autore lombardo possiede una tecnica grafica sopraffina, vera gioia per gli occhi, che mette al servizio di un racconto ucronico (ma allo stesso tempo universale) che ci mostra con una grande malinconia di fondo, come sarebbe il mondo se “l’evoluzione” fosse andata diversamente.

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Una città vuota e triste né più né meno che una delle nostre nella quale il “sangue freddo” che la domina e la governa non è necessariamente sintomo di coraggio e determinazione.
La storia, anche grazie alla citazione finale, possiede in sé una malinconia infinita.

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Penultima storia del volume: Sull’invenzione delle pitture rupestri del piemontese Emanuele Racca e ci racconta una cosina da nulla… nientemeno che l’invenzione dell’Arte!
Deliziosa, colma d’ironia (e un po’ caustica, giustamente) oltre che divertentissima e con una morale, anzi tre, assolutamente condivisibile.
Un bellissimo uso di varie tonalità di grigio rende le tavole di Racca tridimensionali e, dall’altro lato, ne configura degli sfondi “astratti” (perfettamente in tema con l’argomento della storia) e piacevolissimi alla vista.

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Ultimo, splendido racconto del volume è Brodo pineale, di Davide Mancini. Degnissima conclusione di un volume favoloso: storia favolosa anch’essa, cosmica, psychedelica, allucinata e magica, viaggio mentale circolare ed extra-scientifico che mostra il percorso che va dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande e viceversa. Mancini mostra un talento che non vedo l’ora di rivedere e rigustare.

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Una considerazione a lato: tutti gli autori e l’autrice del volume studiano o hanno studiato in accademie o comunque in luoghi specifici nei quali hanno potuto sperimentare e affinare la propria tecnica espressiva. Non voglio dare a questo elemento comune chissà quale significato: semplicemente ho avuto un’ulteriore prova, diciamo così, che il fumetto non-mainstream– o non ancora mainstream - non possiede affatto meno “retaggio o dignità culturale e/o artistico/a” di quello mainstream o seriale.

Dieci Lune mi ha dato tantissimo, molto, molto più di tanti altri fumetti che, una volta piacevolmente letti, vengono dimenticati e subito impilati in ordine numerico. 
Se banalmente ragionassi a “stellette”, sarebbero cinque (su cinque, ovvio) al volume e ancora cinque ad ognuna delle storie.
Consigliatissimo a tutt*, ma prima di tutto a me, che non vedo l’ora di sfogliarne e annusarne l’edizione cartacea!

“La preistoria è il nuovo futuro”

Orlando Furioso

 

Link:

Spugna (Tommaso Di Spigna)

Diego Miedo

Jacopo Oliveri (Fatomale)

Fabio Cesaratto

SDOLZ

Enrico Pantani

Flavia Barbera

Pablo Cammello

Emanuele Racca

Davide “Dartworks” Mancini

Simone Angelini

Marco Taddei

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disegno di SDOLZ


Il Quinto Beatle

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Il Quinto Beatle
La storia di Brian Epstein

scritto da
Vivek J. Tiwary

disegni di
Andrew C. Robinson
conKyle Baker

traduzione di
Antonio Solinas

brossurato, 144 pag., colori

Euro 6,40

Panini Comics / 9L


“I Beatles hanno cambiato le nostre vite. Brian Epstein ha cambiato le loro.” (Andrew Loog Oldham)

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Un volume che aspettavo da tempo perché tutto ciò che ha a che fare con la più grande band della storia del Rock mi riguarda e riguarda da vicino la mia vita.
Lascerò da parte le mie considerazioni sui Beatles [1] e nelle righe che seguono cercherò di concentrarmi sul fumetto (ma non ci riuscirò e il mio amore per i Fab Four rivestirà ognuna delle parole che seguono).

Se bisogna dare delle stelline, prima ancora di cominciare a entrar nel merito, dico subito che le stelline sono quattro e mezzo su cinque e quindi si potrebbe smettere di leggere quanto segue e correre a comprare il volume.
Mentre voi correte a comprare Il Quinto Beatle – La storia di Brian Epstein, io continuo a scrivere delle considerazioni personali. Come per esempio che non so quanto dovete tener conto di quelle quattro stellette e mezzo su cinque perché quando si parla di Beatles la mia razionalità e il mio senso della misura vanno un po’ a farsi friggere.

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Con tutto ciò, questo volume non è una storia sui Beatles, ma su Brian Epstein che fu il loro manager dal 1961 fino alla sua morte avvenuta nel 1967. Il quinto Beatle, appunto.

Tributo dovuto a una persona (per altro giudicata splendida da chiunque l’abbia conosciuto) cui i Beatles devono moltissimo, al di là delle loro proprie innegabili e straordinarie doti compositive e musicali: è indubbio che genii come i Beatles ne nascono forse quattro in un secolo, ma se il loro genio e la loro potenzialità non fossero stati scoperti da una persona come Brian Epstein, chissà se avrebbero avuto lo stesso, fragoroso e meraviglioso impatto sulla Storia?…

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Brian Epstein era ebreo ed era gay, in un Paese nel quale era ancora in vigore la galera per gli omosessuali, che per la legge dell’epoca commettevano lo stesso “reato” commesso da Oscar Wilde: quello di amare persone del proprio sesso.

Le parole con cui comincia la storia non sono dei Beatles, non di John né di Paul, ma sono quelle di una splendida canzone di Billy Fury incisa nel 1960: “A Wondrous Place”  (ascoltatela, dura pochi minuti). La canzone accompagna le prime cinque drammatiche tavole, in cui in poche manciate di secondi di lettura impariamo duramente cosa doveva essere per una persona gay vivere nella Liverpool della fine degli Anni 50 – primi Anni 60. E ci ritroviamo improvvisamente circondati di blu, e di blue inteso come malinconia del vivere, l’essere in un posto sbagliato nel momento sbagliato.

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Sembra strano dirlo per una persona come Brian Epstein, che essendo nel posto giusto al momento giusto riuscì a ottenere nella sua breve vita – che durò solo 33 anni - fama, denaro, prestigio e tutte le altre cose per le quali chi è assetato di successo sarebbe disposto a vendere l’anima al diavolo. Lui l’anima non la vendette perché probabilmente nessun diavolo, neanche il più accondiscendente, avrebbe comprato un animo così tormentato.
Pare banale dirlo, ma l’unica cosa che Brian Epstein avrebbe disperatamente voluto avere, l’amore, non l’ottenne mai. E morì solo.

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Lennon

La storia del Quinto Beatle continua presentandoci un giovane Brian ventiseienne, stimato e benvoluto dalla sua ricca famiglia (evidentemente di costumi progressisti), ma insoddisfatto e in cerca di qualcosa che lo faccia sentire vivo. Dopo aver assistito a un concerto, viene completamente catturato dalla giovane band che si esibisce al Cavern di Liverpool quasi ogni sera: giovani aggressivi vestiti di pelle nera che producono un rock’n’roll fragoroso e sono già una piccola gloria locale. Nella mente di Brian è subito chiaro ciò che deve accadere: lui deve diventare il manager di quei Quattro giovanotti sboccati e con talento da vendere.

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Brian crede fermamente nei Beatles, è lui che prima di chiunque altro ha visto la loro splendente grandezza, la loro stella diventare la più grande dell’intero firmamento musicale. E’ soprattutto grazie a lui che Quattro talentuosissimi ragazzi innamorati del rock’n’roll vengono trasformati in uno dei più grossi fenomeni musicali, culturali e di costume del XX secolo.
Tutto va per il meglio: gli sforzi di Brian cominciano a dare i risultati sperati e i Beatles, con una gavetta che il libro riassume efficacemente in poche vignette (e che nella realtà fu di una tale durezza che nemmeno le più sfigate e scalcagnate hardcore punk band possono sognarsi…), scalano velocemente i gradini che portano al successo.
Il manager, assistito dalla deliziosa e ambigua Moxie, scala anch’egli le vette del successo e dell’abuso di psicofarmaci, che gli servono per affrontare giorno per giorno il terribile contrasto tra i suoi reali bisogni e gli spessi muri dei quali deve circondarsi e che lo tengono lontano dal suo più vero io.
E poi, dicono i dottori, le pillole servono anche a controllare quelle sbagliate, vergognose “inclinazioni intime”.

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Moxie

Poi viene la conquista dell’America, l’Ed Sullivan Show, l’incontro/scontro con Elvis The King, anzi col suo orrendo manager, il “colonnello” Parker. Ma anche l’incontro con uno dei pochi veri amici che saranno accanto a Brian fino all’ultimo: l’avvocato Nat Weiss. Una figura bellissima, unica boccata di affetto e umanità in quell’ambiente di squali che è lo show businness. Purtroppo avviene anche l’incontro con Dizz, sorta di giovane prostituto che non porterà granché di buono nella vita di Brian.

… e la storia continua, splendida, divertente, drammatica e caotica come certamente fu in quegli anni sino ad arrivare, non è certo uno spoiler, alla morte di Brian. Triste, anzi tristissima, ma affrontata dagli autori con una delicatezza e un senso di rispetto encomiabili. Oltre che con grande, commovente poesia.

E’ la storia di Brian Epstein il Quinto Beatle, o comunque ci deve senz’altro somigliare moltissimo perché è più o meno così che sono andate le cose, certamente anche e soprattutto nella testa e nell’anima di Brian.

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Qualche parola sugli autori – tutti fan dei Fab Four– cominciando da Vivek J. Tiwary, produttore e scrittore per teatro e tv, qui alla sua prima opera a fumetti. Per essere la sua prima avventura nel mondo delle nuvolette direi che se l’è cavata egregiamente, in quanto la storia è leggibilissima e coinvolgente anche per chi non avesse mai sentito nominare Brian Epstein e ciò dimostra la felicità di scrittura dello sceneggiatore. E’ molto bello il bilanciamento, naturale e mai forzato, tra i momenti drammatici, anche estremamente drammatici, e quelli più leggeri, ironici e caustici. Non ho avvertito autocompiacenza né ricerca dell’effetto speciale gratuito. Forse anche perché la storia è già talmente straordinaria di suo che… E’ bene comunque chiarire, e lo fa subito giustamente anche l’autore, che questa non è “la biografia di Brian Epstein”, ma una storia nella quale, dice l’autore: “trasmettere la verità non è mai stato il mio obiettivo primario”. L’obiettivo era rivelare la poesia dietro una storia su un eroe.

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I disegni, davvero belli, sono opera di Andrew C. Robinson (autore che lavora anche per Marvel, DC, Dark Horse…) e a mio giudizio presentano un giusto e gradevolissimo equilibrio tra la modernità del segno e la Swingin’ London degli Anni 60. Ma sono altrettanto capaci di descrivere in modo molto intenso e riuscito momenti e situazioni drammatiche non necessariamente swingin’. La somiglianza dei personaggi con le persone reali è perfetta, nonostante non ci troviamo in presenza di un “fotoromanzo”, ma di un’interpretazione personale del disegnatore riuscitissima, che di quelle persone cattura molto di più della mera somiglianza fisica.

Verso la fine della storia 7 pagine sono disegnate da Kyle Baker, prolificissimo autore americano che ha lavorato e lavora per molte Case Editrici, major e non (strepitoso il suo Plastic Man per la DC Comics!). L’episodio disegnato da Baker riguarda il terrificante e pericoloso tour dei Fab Four nelle Filippine, all’epoca sotto la feroce dittatura del generale Marcos e della moglie Imelda. I suoi disegni ricordano quelli dei famigerati Beatles cartoon andati in onda sulle televisioni americane dal 1964 al 1969.

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Dei colori non è dato sapere: saranno anch’essi opera di Andrew C. Robinson? Comunque sono belli, espressivi e ben dosati nella loro brillantezza così come nei momenti di maggior cupezza della storia.

Aprono il volume una prefazione di Billy J. Kramer, cantante coetaneo dei Beatles e anch’egli nel management di Brian Epstein, e una di Andrew Loog Oldham, primo manager dei Rolling Stones.

Concludono una bella postfazione di Vivek J. Tiwari e le splendide righe di Howard Cruse, l’autore del meraviglioso Figlio di un preservativo bucato (spero di parlarne prima o poi), fumettista gay che ci spiega – dato che Panini Comics non lo fa da nessuna parte…) che Il Quinto Beatleè associato spiritualmente ed economicamente all’organizzazione Freedom to Marry.


Orlando Furioso

 

dall’album “REVOLVER”, 1966

>>> Abbiamo parlato dei Beatles anche qui e qui

Nota:

[1]… se non per dire, forse per l’ennesima volta (ma certamente non per l’ultima) che i Beatles sono una delle “cose” più importanti della mia vita, da quasi cinquant’anni e lo saranno fino a che camperò. Non si tratta (solo) di essere “fan”, ma di qualcosa di molto più profondo e, se mi si permette l’azzardo, di più spirituale.

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Brian Epstein

La Divina Commedia

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La Divina Commedia
vol. 1 (di 3)

di Go Nagai

vol. brossur. + sovraccoperta
pag. non dichiarate
b/n (1 pag col.)


euro 8,50

collana Go Nagai Collection

J-POP

 

“Persone che stoltamente hanno adorato falsi dei non seguendo il vero insegnamento di Dio! Devono cadere all’inferno e ricevere il loro naturale castigo!” (Virgilio, Go Nagai Divina Commedia)

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Non sono particolarmente “orgoglioso” di essere italiano: essere nati/e in Italia o nel Benin è frutto di pura casualità, quindi cosa c’è da essere “orgogliosi/e”?
Voglio dire: mi va benissimo essere nato qui, non è che non ami l’Italia e la sua cultura, anzi. Però amo anche la Francia, il Giappone, l’India, la Germania e se fossi nato in Benin amerei il Benin e la sua cultura.
Insomma, sono poco patriottico e abbastanza internazionalista e le diversità culturali mi piacciono, mi incuriosiscono (talvolta mi spaventano, certo) e le considero una ricchezza e una benedizione.

Però… Ebbene sì: c’è un“ma”; c’è sempre un “ma”...
In questo caso il mio “ma” si chiama Dante Alighieri e Divina Commedia! Sono l’unica, l’unica cosa che potrebbe farmi dire a uno/a, chessò, Neozelandese: “… noi abbiamo Dante Alighieri e voi no!…”

Sulla Divina Commedia vado fuori di testa: toccatemela e posso arrivare a dire cose brutte.
Non ho mai detto a o pensato di qualcuno “Non capisce un ca**o”, tranne quella volta che in ufficio un ex-collega, pensando di fare chissà quale dichiarazione “rivoluzionaria” e/o provocatoria, mi strillò in faccia che “…la Divina Commedia mi fa cacare!” (letterale) [1]
Sì quella volta ammetto di aver pensato “Ma questo qui non capisce proprio un…”.

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La Divina Commediaè il libro più bello del mondo. Continuo a rileggerlo (e a capirne il, chessò, 4%… ad essere ottimisti!) dall’età di 13 anni e continuerò a farlo finché campo e ogni, ogni volta è un’estasi, sublime e suprema. Il Libro. Tutto il resto sta sotto.

Essendone così fanatico è difficile che io sia ben disposto verso eventuali “riduzioni” [2], “riassunti” o simili. 
Inoltre una “versione” a fumetti della Commedia c’è già (ed è magnifica).
Date queste premesse, ho acquistato il primo volume de La Divina Commedia di Go Nagai con molti e radicati pregiudizi, pensando che ne avrei sicuramente “fatto le pulci” e infine avrei riposto il volumetto in libreria con malcelata delusione…

…E invece Go Nagai, un Giapponese dunque culturalmente la persona forse più lontana da un’opera poetica italiana del Trecento, ha realizzato una sua versione della Divina Commedia il cui primo volume mi è piaciuto moltissimo, catturandomi in una lettura attenta, profonda ed emozionante. “Attenta” perché trattandosi della Commedia sarei stato particolarmente feroce in caso di “travisamenti” marchiani o adattamenti troppo “fantasiosi”.

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Questa mia immediata e profonda empatia con la Divina Commedia di Go Nagai si è forse instaurata anche perché la storia della mia personale fascinazione rispetto all’Opera Originale, e all’Inferno in particolare, è stata simile a quella subita da Nagai quand’era bambino: egli ha infatti narrato in più di una occasione di come rimase incantato di fronte ad un’edizione giapponese della Commedia riproducente anche le famose e suggestive incisioni di Gustav Doré.

Una cosa così, segna la vita. Per caso si scopre una porta che si apre su mondi fantastici e terrificanti e da quel momento si è perduti, o salvati, a seconda del punto di vista e della sensibilità personale. Certamente da quel momento l’interesse per la socializzazione va a scemare… (perché, diciamocelo, se a sette o a tredici anni preferisci atterrirti con le incisioni di Doré della Divina Commedia e ti sogni di notte la Porta dell’Inferno, invece che correre dietro un pallone con gli amichetti e sognare di essere un supereroe, significa che qualcosa di strano, dentro, ce l’hai…)

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Questo primo volume della Divina Commedia di Go Nagai affronta una prima parte dell’Inferno dantesco, arriva cioè sino al Sesto Cerchio, l’ingresso di Dante e Virgilio nella Città infernale di Dite.
In questo primo volume l’opera di Nagai la giudico insieme didascalica e personale: didascalica perché segue comunque abbastanza pedissequamente lo svolgimento della Commedia di Dante; ma in molti punti l’interpretazione, l’atmosfera, il “sentire” generale mi sono parsi alquanto personali. In effetti, date le succitate dichiarazioni di Nagai, mi sarei stupito del contrario. Si percepisce che il manga è stato realizzato in modo schietto e sincero, per pura ammirazione dell’Opera Originale, per necessità di Nagai di comunicare questa sua passione (non dimentichiamoci che l’autore comincia ad esplorare, diciamo così, il mondo del religioso, del sovrannaturale e del demoniaco con il celeberrimo – e incompiuto – Mao Dante, il cui stesso titolo tradisce la passione dell’autore per il Sommo Poeta).

Per chi (ahilui, ahilei!) non avesse mai letto la Divina Commedia di Dante Alighieri, la lettura del primo volume dell’opera a fumetti di Go Nagai può costituire un primo “punto di partenza”, una piacevole introduzione; comunque un’esperienza fumettistica degna di nota di per sé.
Nagai ha letto bene la Divina Commedia, la ama e ne è appassionato e per quanto eventualmente lontano, per ovvi motivi, da una sensibilità e da una lettura vicina alla nostra, sa di cosa si sta occupando.

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La Commedia originale ha ovviamente una sua perfetta coerenza interna e lo stesso accade per la versione di Go Nagai: per avventurarsi nel perigliosissimo viaggio che Dante, accompagnato da Virgilio, compie per volontà divina nel regno infernale dell’Oltretomba, non c’è bisogno di altro che del desiderio di farlo. Inutile dire che la versione a fumetti è, ovviamente, una estrema semplificazione, ma ciò non significa che si tratti di “un’altra storia”. Questo a mio parere è un pregio dell’opera di Nagai, l’aver cioè per quanto possibile rispettato la Commedia.

Non so dire se questa di Go Nagai sia la migliore versione possibile dell’Inferno dantesco, ma ho certamente molto apprezzato le scelte fatte dal sensei riguardo a cosa mostrare e a come farlo, alle scelte di sceneggiatura e allo stile generale. Mi piace lo stile del maestro Giapponese, mi è piaciuta molto questa rischiosa commistione tra stilemi narrativi orientali (ovviamente anche grafici: guardate il Caronte col remo in mano, terzo disegno qui sopra), le incisioni di Doré e l’inarrivabile opera del Sommo Poeta Fiorentino. Parlando fuori dai denti: il rischio che potesse venir fuori una cosa ridicola era presentissimo. Nagai non è un disegnatore dotato di una tecnica grafica stratosferica e, sia detto senza malizia né astio, alcune sue opere non denotano chissà quale profondità. Ha quindi rischiato moltissimo ad affrontare la riduzione a fumetti del libro più bello al mondo.

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Dal punto di vista squisitamente grafico Nagai, in molti punti dell’opera, cerca di attenersi alle celeberrime rappresentazioni dell’incisore ottocentesco Gustav Doré: alcune tavole sono la riproposizione, anche abbastanza precisa, delle incisioni del pittore francese. L’uso del nero è ovviamente massiccio (esiste forse un luogo più nero per antonomasia dell’Inferno?…), l’uso dei retini è tutto sommato moderato mentre gli sfondi cupi fatti a mano, linea per linea, abbondano.
Il tratto del maestro è inconfondibilmente “nagaiano” per quanto riguarda le fisionomie di Dante, Virgilio, Beatrice (per ora la più “nagaiana” di tutti/e), l’Angelo, Francesca e molti altri dannati, mentre per i mostri classici (Minosse, le Gorgoni, Flegias, Plutone…) si attiene per quanto possibile alla versione di Doré. Personalmente ritengo il risultato della commistione, come dicevo poc’anzi, pregevole, originale e piacevole.

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Accennavo prima all’atmosfera della Divina Commedia di Go Nagai: formalmente è rispettosa dell’Originale eppure, da un certo punto di vista, è anche molto personale. Nel senso che il sensei riesce a comunicare, a mio giudizio molto bene, sia l’atmosfera e il senso generale della Commedia dantesca che le sue proprie fascinazioni e impressioni, le sue sensazioni ed emozioni. Come dicevo, la partecipazione emotiva dell’autore c’è e si vede. Per mezzo di quest’opera a fumetti l’autore si pone e ci pone delle domande molto profonde, sostanziali, e che prima o poi, indipendentemente dalle idee di ciascuno/a, siamo o saremo comunque costretti/e ad affrontare.

L’autore Giapponese è riuscito a mio giudizio a coniugare in modo graficamente e narrativamente armonico atmosfere epiche e grandiose con momenti di profondissima e intima disperazione, dubbio, terrore. L’accorata e disperata compassione di Dante davanti agli eterni supplizi dei dannati è stata resa da Nagai in modo encomiabile e così i tormentosi dubbi che affliggono l’animo del Poeta (e, conseguentemente, di noi tutti/e).

Anche per questo la partecipazione di chi legge è senz’altro garantita, a patto di avere anche un interesse per un’opera permeata da un’incredibile, quasi insopportabile, cupezza e disperazione.

Non mancano scene splatter– irrinunciabili per Nagai – che però non sono mai “gratuite”, nemmeno quando esulano dalla stretta osservanza della lezione dantesca. Un Inferno senza descrizioni di crudeltà sarebbe, d’altronde, la cosa meno credibile da narrare.

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Fino a qui, cioè fino al Sesto Cerchio dell’Inferno (Canto IX), La Divina Commedia di Go Nagai non è un banale “riassunto-a-fumetti” dell’immortale Opera dantesca: ne è invece una delle possibili (re)interpretazioni da parte di un medium distantissimo dall’Opera Originale, fatto da un autore che pur essendo geograficamente e culturalmente lontano dalla sensibilità e dal gusto dell’Italia del Trecento, è riuscito a comunicare emozioni e sentimenti forti e profondi.

Personalmente aspetto con ansia i seguenti due volumi.

 

Orlando Furioso

 

Nota:

[1] Per far riassumere la tipologia: poco prima avevano affermato che Picasso non sapeva neanche disegnare e che i suoi erano solo “scarabocchi” e che “qualcuno” (?) aveva anche trovato le prove di questo: delle “lettere” in cui Picasso affermava che “pur non sapendo neanche disegnare era riuscito a prendere per il culo [anche qui letterale] gli storici dell’arte e a diventare miliardario alla faccia nostra!” (“nostra”?…)
(QUI la tipica opera di uno che non sapeva neanche disegnare.)

[2]…anche se continuo a pensare che un nuovo (e bello!) film sulla Divina Commedia forse sarebbe possibile farlo… magari in animazione?

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Marvel Comics


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MarvelComics_cover
Marvel Comics
Una storia di Eroi e Supereroi

di Sean Howe

saggio

prefazione di M.M. Lupoi

586 pag.

euro 29,90
(versione cartacea esaurita?)

euro 6,60 (e-book)


Panini Books

.

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Dedicato con affetto e stima a Francesco Vanagolli, giovane saggista, traduttore di fumetti, appassionato, fan non fanatico e il più grande esperto di fumetti supereroistici che io conosca. [1]

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SteveDitko_SpiderMan

Sembra una frase retorico-pubblicitaria, eppure è vero: se si amano, o si sono amati, i supereroi Marvel non ci si può lasciar sfuggire questo libro fondamentale.

Si tratta della storia, romanzata e non autorizzata, della Marvel Comics; come dice Marco Marcello Lupoi nella prefazione: “E’ un libro più sulla Casa delle Idee, sui suoi successi, conflitti, crisi e trionfi, che non sulle vicende immaginifiche di Peter Parker, Charles Xavier o Tony Stark. […] Spiega gli ingranaggi e i meccanismi che hanno trasformato una casa editrice di fumetti di secondo piano nel leader mondiale dei supereroi […].”

Aspettavo da così tanto tempo un libro del genere che, ora che l’ho terminato, sento una specie di vuoto.
Un vuoto simile, anzi la centuplicazione di un vuoto simile, lo provai quando i supereroi della Marvel mi vennero improvvisamente a mancare: non esagero affermando che i supereroi Marvel– che conobbi nel 1970 – hanno cambiato la mia vita.

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L’altro ieri, in un veloce messaggio inviato a Francesco, gli dicevo che se questo libro l’avessi letto all’età di 11 – 12 anni forse la mia vita sarebbe ulteriormente cambiata… Cosa volessi dire non so di preciso, sono solo sensazioni, ma il senso di appartenenza (e, s’intende, di fortissima nostalgia) che ho provato leggendo questo libro, come parlasse di una cosa intimamente, profondamente mia, è raro e, forse, prezioso.
Citandomi di nuovo: chiacchierando qualche giorno fa con uno dei miei più cari amici gli dicevo che sì i fumetti sono tutti belli e sono così felice di tutti quei manga che leggo (ed è la verità) e l’offerta di fumetti belli se non bellissimi è davvero vasta, grazie al cielo, e… però i supereroi sono sempre supereroi e chiudevo enfaticamente con “…però se hai cominciato coi supereroi, sarai sempre con i suprereroi!”. E lui ha riso e mi ha capito, perché anche lui è con i supereroi.

Oh, intendiamoci: è zeppo il mondo di gente che a 10 anni leggeva i Fantastici Quattro e dopo una certa età ha smesso e non ci pensa nemmeno a ricominciare (nemmeno io ci penso, ristampe a parte). Ma la fuori è anche pieno di gente che ha cominciato a leggere i supereroi a 10 anni e in un modo o nell’altro non li ha più abbandonati né mai lo farà. 
Sean Howe nel prologo al libro afferma che “Per generazioni di lettori, la Marvel ha rappresentato la grande mitologia del mondo moderno”: ebbene ha ragione e per quanto al momento non sono forse molto praticante, la mia casa in realtà sembra proprio un tempio dedicato a queste moderne, coloratissime divinità. E resterò per sempre un True Believer.

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Thor_John_Buscema

Torniamo al libro.
In 18 densissimi capitoli ci viene narrata nel dettaglio e con abbondanza di particolari, talvolta scabrosi, la storia della Marvel Comics, sin da quando Martin Goodman, nell’ottobre del 1939, fa uscire nelle edicole statunitensi il primo numero di Marvel Comics, comic-book (formato per altro appena inventato) in cui apparivano la Torcia Umana e Sub-Mariner.
Per quanto l’ottica principale sia sempre quella “aziendale” (non stiamo parlando, in fondo, della storia di un’azienda?…), per quanto lo scopo ultimo sia sempre quello del profitto – o in alcuni casi della vera e propria sopravvivenza – non c’è storia che parli di fumetti (o di musica o di cinema) in cui non abbia sempre, sempre un ruolo fondamentale l’amore. Perché lo stesso martin Goodman, il primo, cominciò tutto quanto a causa dell’amore che da piccolo nutriva per le riviste, i pulp magazines.

Gli inizi furono faticosissimi ma Goodman, insieme a Joe Simon e a Jack Kirby, ce la fece e cominciò così la costruzione di quello che diventerà un vero e proprio impero. 
Dalla fine del 1939 insieme a Goodman, e ai vari direttori, editori, manager che si susseguirono negli anni fino ad oggi, c’è sempre stata una figura, controversa, amata e odiata (chiarisco subito: io lo amo), sicuramente un personaggio non comune che risponde al nome di Stan Lee.
Fu lui, insieme agli eccelsi disegnatori Steve Ditko, l’immenso Jack Kirby, Bill Everett e tanti altri, a creare e a co-creare i personaggi che diedero vita a un modo nuovo e rivoluzionario di concepire i supereroi, la Marvel Way, un intero Universo in cui tutto si lega a tutto, un universo nel quale i nomi delle città non sono fittizi e i monumenti e i palazzi attorno cui volteggiano i supereroi sono quelli reali.
Insomma: la famigerata Continuity!

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IronMan_Gene_Colan

L'idea, che oggi ci sembra così ovvia, che tutti gli eroi vivessero in uno stesso mondo, anzi ancora di più: che tutte le loro avventure fossero in qualche modo, quando tenue e quando molto stretto, collegate tra loro per formare un unico, grandioso affresco narrativo, è un’invenzione della Marvel, di Stan Lee in particolare. 
Il concetto della Continuityè stato  fondamentale per il successo della Marvel nel mondo dell'editoria a fumetti americana e mondiale in quanto ha ulteriormente facilitato la possibilità di identificazione da parte del lettore: il mondo “reale”, lo scorrere – per quanto con scansioni e ritmi diversi – del tempo, i cambiamenti che sconvolgevano gli eroi (matrimoni, nascite di bambini...). La Continuity ha “abbassato le barriere” tra mondo di carta e lettori.
“Ma era davvero un universo narrativo immaginario? Quella che si vedeva dietro la Torcia non era forse la skyline di Manhattan? Non era il fiume Hudson quello in cui il Sub-Mariner si stava tuffando?” (S. Howe, cap. 1)

Oltre alla Continuity l’altra grande trovata della Marvel– di Stan Lee e degli Altri - fu quella di creare dei supereroi dotati sì di superpoteri, ma dotati anche di problemi (da quelli di identità a quelli di mera sopravvivenza), sfortuna, malinconia; supereroi con superproblemi, proprio come recita lo slogan e proprio come piace a noi Veri Credenti.
Non fu mai tradito l’assioma iniziale che ogni appassionato/a conosce a memoria: ”Da un grande potere derivano anche grandi responsabilità!”. Amen.
Quant’è più facile per un adolescente (bianco, maschio e della middle-class, s’intende) identificarsi con un supereroe che non ha fortuna in amore, che anzi nella sua identità pubblica viene sbeffeggiato e preso volentieri di mira dalla sfortuna? I supereroi della Marvel in fondo non rappresentano altro che noi stessi come vorremmo essere (coi superpoteri) e come in realtà siamo (sfigati nerd con problemi di socializzazione e spesso presi a calci in culo).

Tutto cominciò – noi nerd lo sappiamo bene – con Fantastic Four n. 1 che raggiunse le edicole l’8 agosto 1961.
Noi nerd lo sapremo anche bene, ma Sean Howe nel libro ce lo racconta in un modo così avvincente e pieno di dettagli che forse in quel modo non l’avevamo mai letto…
E la storia continua con l’ideazione degli altri supereroi, dall’Uomo Ragno a Thor, da Iron Man a Hulk, da Ant-Man ai Vendicatori, gli X-Men ecc. ecc. frutto dell’ingegno, della tecnica e della creatività e della fantasia di tutti gli scrittori e disegnatori e inchiostratori che si sono succeduti, che a nominarli tutti qui è impossibile. Senza dimenticare i direttori e i supervisori… 

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Il racconto di Howe continua, sempre dettagliato e appassionato anche in quei non rari momenti in cui la prospettiva diventa, necessariamente, poco poetica e ancor meno artistica per privilegiare un’ottica di mercato, denaro, diritti, vendite. E’ così: dietro la fantasia e la creatività c’era una macchina aziendale, spesso tutt’altro che perfetta, ma che comunque è sempre riuscita a inondare il mercato di pubblicazioni mediamente di buona, con punte di ottima, qualità.
Sean Howe ha il grande pregio di raccontarci con eguale passione sia la macchina aziendale che quella creativa, sia l’amore per i fumetti che la nausea per i fumetti che prendeva chi non ce la faceva più (spesso per ottimi motivi…) e riesce a interessarci e tenerci incollati alle pagine sia quando parla di invenzioni di macchinari alieni che quando racconta di dividendi, azioni e prestiti bancari.

Fortunatamente per noi però la parte del leone la fa il mitico Bullpen, ossia la redazione della Marvel, che se non era certo come veniva descritta sulle allegre pagine della posta degli albi a fumetti, riserva comunque un mucchio di soprese e di racconti e aneddoti spesso divertenti tanto quanto spesso amari. Non c’è redattore o disegnatore o sceneggiatore, per quanto “minore”, che non venga almeno citato.
Howe ci racconta le persone dietro i fumetti e quei racconti sono preziosi, preziosissimi e forse possono, almeno in parte, contribuire a ristabilire un po’ di verità e a ridare un po’ di dignità a quelle persone che nel corso degli anni hanno subito torti e ingiustizie.
Questo libro racconta anche cose terribili, come la morte di alcune persone dovuta forse ad accumuli di stress e superlavoro associati a stili di vita piuttosto insani. L’industria produce anche questo, oltre alle merci: morti sul lavoro e l’industria culturale, o dell’intrattenimento, non fa purtroppo eccezione (sebbene i numeri non siano certo paragonabili a quelli di professioni assai più rischiose!).

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A questo proposito voglio citare l’argomento – che Howe sviluppa in modo lucido e intelligente e senza cinismo - degli “autori dimenticati”: dimenticati in primis dai lettori stessi, quelli che poi piangono e si stracciano le vesti perché il tal autore è morto povero e dimenticato: ma NOI, i “fedeli lettori e lettrici”, noi così umani e comprensivi, da quanto non ci facevamo venire in mente quell'autore appena morto? Da quanto non leggevamo una sua storia? Ah già: forse perché in realtà le ultime cose di quell'Autore, appena deceduto e per cui stiamo piangendo sui social network, non ci piacevano per niente e anzi le sfottevamo allegramente sui forum.

E continuando con le ingiustizie o presunte tali, sono ovviamente molte le pagine dedicate all’ormai eterno contrasto che oppone Stan Lee ai due disegnatori che più hanno sofferto in seno alla Marvel: Steve Ditko e Jack Kirby, entrambi co-creatori di personaggi diventati oramai icone mondiali dai quali però non hanno tratto grandi riconoscimenti e vantaggi monetari. la questione è oramai diventata filosofica, diciamo così; un po’ perché purtroppo Kirby ci ha lasciati nel 1994, un po’ perché oramai è impossibile stabilire con certezza una qualche univoca “verità”.
Sean Howe mantiene una saggia equidistanza nell'annosa, e dolorosa, querelle.
Le cose, checché ne dicano brufolosi nerd che "sanno tutto loro" (anche se neppure i loro genitori erano ancora nati quando la querelle aveva inizio...) non sono affatto lineari né chiare; le prove e le controprove, se proprio uno ha ancora voglia di impelagarsi su una questione che non ha soluzione (se non, appunto, una mediata equidistanza e un umile dichiarazione di ignoranza), sono ognuna smontabile e soprattutto sono soggette alle simpatie e soprattutto alle antipatie di chi si erge a giudice.

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Doctor_Strange

Il racconto continua e si sviluppa principalmente in quelle che vengono comunemente chiamate la Silver Age (1956 – 1971) e la Bronze Age (1971 – 1986) del fumetto supereroistico statunitense (naturalmente termini e periodi sono del tutto indicativi). Sono, quelli, gli anni in cui il fumetto supereroistico esce dal target usuale (infantile/pre-adolescenziale) per diventare fenomeno apprezzato dai ragazzi più grandi, specie quelli dei campus.
Insomma: le strategie utilizzate dalla Marvel funzionano e così, per esempio, il Dottor Strange   con le sue trame e i suoi disegni psichedelici piacerà agli “sballoni”, il melanconico e frustrato Silver Surfer diverrà il beniamino dei pacifisti (anche se questo non lo salverà dalla cancellazione per scarse vendite) e i nuovi personaggi neri - Black Panther e Luke Cage – non dispiacciono agli studenti simpatizzanti delle Black Panthers…
 
In quegli Anni la "controcultura" era affascinata da quel nuovo modo di concepire i fumetti, senz'altro più open mind e più consapevole della circostante realtà rispetto all'altra grande major del fumetto, la DC Comics, acerrima e storica rivale della Marvel.
Si potrebbe pensare che in un ipotetico arco politico la DC Comics fosse la “destra conservatrice” e la Marvel una timida più-o-meno-“sinistra liberal e progressista”... se non fosse che sempre di aziende parliamo e lo scopo di ogni azienda resta il profitto e non il cambiamento della società... e se non fosse che, a fronte comunque di una maggiore e innegabile propensione alle ideologie "liberal" in casa Marvel, qualsiasi argomento "spinoso" (dalla guerra nel Vietnam ai Diritti Civili alle droghe alle Pantere Nere) veniva evitato il più possibile e spesso alla fine di una storia la "morale", alla fin fine, era quella conservatrice e/o qualunquista. Ma chi fa una colpa a questo tipo di atteggiamento, diciamo così "fintamente progressista", secondo me giudica con la testa di oggi, in un mondo in con due click su un social si pensa di aver fatto la rivoluzione; ma per esempio negli Anni 70 era ancora vivo il ricordo dei roghi dei fumetti e delle decine e decine di chiusure di testate con conseguente disoccupazione delle maestranze e delle audizioni in tribunale da parte degli editori.

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X-Men_John_Byrne

A questo proposito è molto interessante e illuminante la parte - troppo breve in verità (solo poche righe!) - sul coming-out di Northstar, primo supereroe gay della storia del fumetto mainstream, che su Alpha Flight n. 106 del 1992 rivela di essere gay: ci fa piacere pensare che "la Marvel" fosse impegnata nelle lotte dei diritti civili delle persone omosessuali, mentre invece l'iniziativa fu di un unico autore - Scott Lobdell - e che la storia in questione, semplicemente, venne supervisionata troppo in fretta per accorgersi di quella "incidentale" dichiarazione del velocista canadese. Dichiarazione che, infatti, venne più o meno dimenticata nei fumetti per svariati anni, se non proprio fino al matrimonio di Northstar col suo segretario.

Il racconto sulla Marvel di Sean Howe continua nel dettaglio, senza mai perdere verve, e arriva alla famosa (famigerata, direi) crisi degli Anni 90, quella accaduta un istante dopo che i “numeri Uno” di quasi qualsiasi fumetto uscivano in tirature da milioni di copie e venivano acquistati (ma non letti!) da altrettanti milioni di lettori le cui fantasie di speculazione vennero frustrate dalla più grossa crisi del fumetto dal Dopoguerra. (D’altronde… comprare intere casse di “numeri uno” stampati a milioni di copie non mi pare una mossa granché saggia: non ci capisco molto di economia e di mercato, ma mi pare che una cosa – qualsiasi cosa – valga maggiormente quando di quella cosa “ce n’è poca in giro”. Sbaglio?…)

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Infine la storia raccontata da Sean Howe in questo indispensabile Marvel Comics – Una storia di Eroi e Supereroi, giunge ai giorni nostri, nei quali i film sono diventati il primo interesse e i fumetti, che non si vendono più a “milioni di copie” ma a ben più modeste “migliaia di copie”, sembrerebbero essere un po’ meno pieni d’amore. O forse è solo la nostalgia per un epoca che non potrà tornare a farmi pensare così.
Ma questo non ha importanza perché gli eroi, i nostri eroi sempre più moderni e colorati, continueranno le loro avventure su carta e su schermo (da quello del cinematografo a quello dello smartphone) anche senza di noi, i loro fedeli lettori e lettrici, anche senza gli autori che li hanno creati. Noi non ci saremo più ma loro, gli eroi, continueranno a svolazzare per i cieli e a combattere i supercattivi che vorrebbero conquistare il mondo.
Leggete questo libro.


Orlando Furioso

 

Nota:

[1] Oh, non fraintendete: Francesco è vivo e vegeto, neh! XD
Ecco alcuni dei suoi ottimi articoli sulla vecchia Fumetti di Carta, molti dei quali riguardano proprio la Marvel:

- Marv Wolfman: intervista esclusiva

- Batman - Strane Apparizioni

- Steve Rude: intervista esclusiva

- Capitan America – L’Impero Segreto

- Max Brighel: intervista esclusiva

- Fabio Civitelli: intervista esclusiva

- Fantastici Quattro n. 200

- Ivan Reis: intervista esclusiva

- Stefi, ci si rivede, eh!

- Play Press: 20 anni di comics in Italia, parte prima

- Play Press: parte seconda

- Play Press: parte terza

- Play Press: parte quarta

- Play Press: parte quinta

- Steve Englehart: intervista esclusiva

- Creeper di Steve Ditko

- Amazing Spider-Man di Stan Lee e John Romita, Sr.

- L’uomo della strada o sulla saggezza popolare (supereroi)

- Mister No

- Zia May: la dignità della vecchiaia

- Gene Colan

- Ricordando Jim Mooney

- Il 2010 del fumetto italiano

- Capitan America è morto!

- Le rubriche della posta nell’era di Internet

- “R” come Reginella

- Uomo Ragno: il Peter Pan in costume rosso e blu

- L’Uomo Ragno: Road to Brand New Day

- L’Uomo Ragno: Road to Brand New Day pt. 2

- L’Uomo Ragno: Road to Brand New Day pt. 3

- L’Uomo Ragno: Road to Brand New Day pt. 4

- Superman: nulla di sbagliato nella…

- Batman: Hush

- Quando iniziai a tifare Inter

- Il Fan Service onesto

- Action Comics n. 1

- Da L’Uomo Ragno a Spider-Man

- All-Star Superman

- All-Star Batman e Robin

- L’altra metà del cielo: Silver St Cloud

- Quando non mi piaceva John Buscema

- Il 2009 del fumetto in Italia

- Zambot 3 di Yoshiyuki Tomino

- 500 numeri dell’Uomo Ragno

- John Romita, Jr. l’erede delle meraviglie!

- Amazing Spider-Man di H. Mackie e J. Byrne

- Spider-Man: Chapter One, di John Byrne

- Daitarn 3

- Ken il Guerriero

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Il Papa Terribile

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Il Papa Terribile

1. Della Rovere

A. Jodorowsky, testi
Theo, disegni
S. Gérard, colori
F. Bossard, colori

vol. brossurato, 112 pag., colore

euro 14,00


Panini Comics  Collezione 100%

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E’ il 18 agosto del 1503. La scalata al soglio di San Pietro da parte del cardinale Giuliano Della Rovere, eterno nemico del clan dei Borgia, comincia pochi istanti dopo la misteriosa morte di papa Alessandro VI, avvenuta quella stessa notte. Nulla, assolutamente nulla, verrà giudicato troppo sordido, violento, scandaloso o ripugnante da Giuliano per raggiungere il trono papale. Aiutato dal suo amante Alidosi, da un ultra-libertino e cinico Niccolò Machiavelli e dalla sua propria spietata determinazione, oltre che dal furto, dal tradimento e dall’assassinio, Della Rovere sarà eletto papa col nome di Giulio II.
Benedetta sia Roma! Benedetta sia l’Italia! Benedetta sia la Chiesa Cattolica, Imperatrice del mondo intero!

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Non ero l’unico a pensare che Il Papa Terribile di Jodorowsky e Theo non sarebbe mai uscito in Italia… le solite cose: il “Paese col Vaticano in casa”, “Vaticanolandia” ecc. Tutte cose vere, sia chiaro: anche se questa nazione non è dichiaratamente teocratica, le conquiste sociali tardano ad arrivare proprio “grazie” (…) alla presenza del Vaticano.

E invece Panini Comics, evidentemente non condizionabile da teocrazie non dichiarate e vaticanismi vari, pubblica proprio in queste settimane questo imperdibile volume, destinato, s’intende, a un pubblico adulto. Scelta dettata, certamente, dalla bellezza dell’opera; anche se a mio parere l’opera ha un altro, altissimo pregio: l’anticlericalismo.

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L’anticlericalismo è un valore che se potessi renderei insegnamento obbligatorio a scuola (insieme all’educazione civica e al rispetto delle diversità) e invece qui a Vaticanolandiaè così poco presente, così boicottato, così malamente considerato. E pensare che è un valore che non ha nulla a che fare con la religione o, meglio ancora, la spiritualità.

Ma torniamo al fumetto.
L’autore dei testi, Alejandro Jodorowsky, non è certo uno sconosciuto qui in Italia: i suoi volumi, che siano a fumetti o che siano romanzi o saggi, sono molto noti, vendono bene e godono di una moltitudine di ammiratori e ammiratrici.

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Il Papa Terribile, la storia del papa Giulio II,è un fumetto “storico” in quanto ha per protagonisti personaggi realmente esistiti, non nel senso che rispetti necessariamente gli accadimenti “così come sono avvenuti” - e infatti Jodorowsky non è uno storico di professione.  
Il volume racconta una storia piena zeppa di violenza, sesso, veleni e, appunto, anticlericalismo.
Qui tutto è eccesso.

Ma senza nulla togliere alla maestosità e all’efficacia della storia e della scrittura di Jodorowsky (che amo a prescindere), lo splendore del volume è dovuto ai magnifici, realmente sontuosi disegni di Theo (al secolo Theo Caneschi) . Una vera esplosione di gioia per gli occhi.

Lo stile di Theo riesce a essere "iperrealista" per quanto riguarda le espressioni dei personaggi, che specie nei primi piani pare escano dalla pagina pronti a mangiarti il naso, e allo stesso tempo molto "fumettistico", ovviamente nella migliore accezione del termine, anche e soprattutto per l'uso anti-naturalistico dei colori: a questo proposito i coloristi Gérard e Bossard hanno fatto uno splendido lavoro non andando mai a “coprire” o a rendere piatti i magnifici disegni di Theo.

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Le anatomie, i nudi, specie quelli maschili che abbondano, tutto è disegnato splendidamente, con sapiente conoscenza del corpo e delle varie età del corpo; le caratterizzazioni dei personaggi, dei loro volti soprattutto, rasentano la perfezione. Anzi questo è proprio uno dei punti di maggior forza del volume: la potentissima dinamica che Theo riesce a trasfondere nei volti e nei corpi e nei movimenti dei personaggi. Personaggi vivi.
Questo non vuole dire che il resto (paesaggi, interni, arredi, costumi ecc.) restino in secondo piano: anzi, la straordinaria maestria di Theo rende “tridimensionale” qualsiasi elemento della tavola e la cura del particolare è un pregevole “di più” che impreziosisce ulteriormente il volume. Guardare gli arredi, i sontuosi vestimenti di Giulio II, i costumi dei prelati e dei guerrieri, gli abiti degli altri personaggi, equivale a perdersi in uno splendido reticolato di segni e colori pieni di bellezza e di forza.
Chissà se il fatto che Theo sia nato nella stessa città di Leonardo da Vinci significa qualcosa in termini di destino e capacità artistiche?...

La linea di Theo non è ossessivamente "omogenea" (siamo distantissimi da una qualsivoglia "ligne claire"; per intenderci basta guardare le immagini a corredo, che comunque NON rendono minimamente quanto rende osservarle su carta), la realtà è interpretata in senso realistico per quanto riguarda proporzioni, anatomie  e prospettive, ma al contempo le tavole sono perfettamente fumettistiche, senza che ci sia bisogno di chissà quali sperimentazioni o arditezze grafiche.

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Il tema-colore dominante è ovviamente il rosso: parlando di papi, di cardinali e di sangue il rosso è il colore naturale. Una luce un po’ soffusa è presente nei disegni, ma questo effetto – dovuto alla colorazione – non disturba, rende anzi meglio, a mio parere, l’atmosfera generale.

La storia non ha nessun punto di stallo, ma anzi dall'inizio alla fine prosegue quasi di corsa tra avvenimenti sempre più crudelmente e violentemente intensi, maestosi ed eccessivi, colpi di scena e una scia di sangue che percorre, insieme a una onnipresente macabra ironia, l’intero volume. Insomma si legge d'un fiato perché è avvincente e anche stuzzicante, piena com’è di scandali e di situazioni che vanno dal pruriginoso all’esplicito, e diverte tantissimo perché osa ed eccede ma senza scadere mai nel ridicolo o, peggio, nel banale.

Il fatto che il papa Giulio II e una buona parte della cricca prelata sia omosessuale, e il fatto che in tutta la storia questa omosessualità non venga mai una volta trattata in modo “particolare” o diverso dalla, per esempio, eterosessualità di Niccolò Machiavelli, è un ulteriore pregio. Ecco - finalmente! - un fumetto in cui personaggi omosessuali non rappresentano nessuno stereotipo: non c’è traccia di politically correct qui, nessun omosessuale è descritto secondo i triti dettami di una morale in decomposizione che ci vuole tutti “effeminati” o “portati per…” o “delicati” o “sensibili”. Finalmente una storia in cui personaggi omosessuali sono malvagi, stron*i, ipocriti esattamente come lo sono tutti gli altri, né più né meno. Non è certo né il genere né l’orientamento sessuale a determinare le “inclinazioni” di una persona [1]. Da uno come Jodorowsky non mi sarei aspettato nulla di meno a riguardo.

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Per quanto riguarda i dialoghi faccio un'osservazione del tutto personale (come ogni cosa qui scritta): talvolta la prosa messa in bocca da Jodorowsky ai vari personaggi è spesso un po' troppo stereotipata, un po' troppo, come dire, "leggendaria", un po' troppo "proprio-come-ce-l'aspettavamo" e forse, da questo punto di vista, l’autore cileno avrebbe potuto osare un pochino di più.
Questo però non inficia né la bellezza né la fluidità della storia né tantomeno l'efficacia delle caratterizzazioni. 

L’ultima pagina termina con la scritta “continua…” e spero vivamente che ciò risponda al vero e che esca presto il seguito di questo volume splendido e imperdibile che consiglio a chiunque voglia immergersi in una storia intensa, appassionante, senza tabù e magnificamente disegnata.

Orlando Furioso



Nota:

[1] Questo, al contrario di ciò che potrebbero pensare certi moralisti gay, fa bene alla causa dei diritti delle persone omosessuali: “nessuna discriminazione” significa anche il diritto ad essere stron*i/e proprio come lo sono gli eterosessuali (o i non-sessuali, o i polisessuali o chiunque). Personalmente sono arcistufo tanto dell’omofobia quanto di “persone gentili” che danno per scontato che siccome sono gay io debba essere “più sensibile”, “con un maggior senso artistico” o altre, discriminatorie stron*ate del genere.

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Uno scontro accidentale…

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shintaro_kago_cover
Uno scontro accidentale
sulla strada per andare a scuola
può portare a un bacio?

di Shintaro Kago

vol. unico, brossurato
168 pag. col. e b/n

horror, splatter, comico, guro, assurdo, scatologia, sesso

per un pubblico maturo
e ironico

euro 18,00

Hikari – 001 Edizioni

Questo è un manga per adulti?
Uno scontro accidentale sulla strada per andare a scuola può portare a un bacio? contiene immagini disturbanti. Che però hanno la caratteristica di fare sia orrore che ridere.
Tenete conto che Shintaro Kago per una persona italiana è già un nome che può far ridere di per sé. Lui è uno che ha fatto un manga intitolato “Il cadavere di nonna puzza” e che chiama le sue opere “merda”.
Produce anche action-figure di cadaveri.
Un’idea di che tipo sia ce la siamo fatta.

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shintaro_kago_01_GroupDating

E’, però, un manga per adulti? Ho la sensazione che Uno scontro accidentale… sia più facilmente fruibile da chi ha un senso dell’ironia particolarmente sviluppato e un po’ selvaggio, indipendentemente dall’età anagrafica di chi legge.
Un paio di storie mi hanno molto impressionato e mi hanno provocato un po’ di pelle d’oca per l’orrore. Il tutto però sempre mentre ridacchiavo. Non credo di essere così desensibilizzato da non comprendere più la differenza tra orrore e risata e sono certo di non avere (ancora) sviluppato quell’orrendo cinismo che va oggi tanto di moda, che è anzi quasi ideologia dominante.
Quindi, insomma, magari se avete bambin* in casa mettete il volume su uno scaffale un po’ in alto, oppure leggetelo insieme al pargolame e ridetene sguaiatamente.

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Il mio compagno che ha letto qualche storia qui e là – il volume è composto da 46 micro-storie– pensa che questo mangaka dal cognome ridarello sia uno psicopatico o un fattone; io gli ho risposto che non è giusto pensare che una persona solo perché possiede una fantasia non-proprio-convenzionale sia per forza uno psicopatico o un fattone; lui ha ribattuto citando una mia frase di qualche giorno fa, ossia che “probabilmente è impossibile produrre certi tipi di [splendida] musica senza essere molto drogati”.

Touchè… Però penso che la musica, a certi livelli, sia – come dire – “meno ragionata”, più connessa con l’improvvisazione, con un lato incontrollato della mente; mentre il creare e disegnare una (micro)storia è più in relazione con il ragionamento, la ricerca di un particolare effetto. Non si tratta di un gesto immediato, come può essere il suonare.
Oppure Shintaro Kagoè un fattone psicopatico… d’altronde quanto poco ce ne può importare?!?

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shintaro_kago_03_MortediunaMangaka

E’ originale la scelta della Hikari (la Casa editrice torinese di cui abbiamo già volentieri parlato QUI) di portare in Italia un titolo così diverso dal solito, un autore così apparentemente poco appetibile dal grande pubblico. Oppure ci stiamo preparando per un cambiamento di paradigmi e la divisione, tutta occidentale per altro, tra underground e mainstream sta per andare a farsi benedire. E a proposito di underground, c’è poco, in questo volume, che non si sia già (intra)visto altrove: questo sia detto non a demerito dell’autore, ma solo perché non si pensi a una rivoluzione d’emblée, che parte da qui [1] .
Il Giappone è da sempre, specialmente dagli Anni 60 grazie alla mitica (e mitizzata) rivista Garofondata nel 1964 da Nagai Katsuichi, terra fertile per la sperimentazione a fumetti. Quindi ciò che a noi può sembrare novità assoluta, in Giappone è parte integrante di una lunga e gloriosa scuola/tradizione di mangaka che coi loro lavori, spesso disturbanti e violenti, escono dal solco del rassicurante mainstream. Non ce l’hanno solo gli americani l’underground.

Cosa abbiamo dunque in Uno scontro accidentale sulla strada per andare a scuola può portare a un bacio?
Ultraviolenza, sesso, mutazioni corporali, scene splatter, orrore metafisico e molto fisico. Tuttò questo graficamente e a una prima occhiata; mentre a un’analisi appena meno superficiale troviamo componenti ed elementi molto più interessanti, quali metafumetto (non certo quell’abusato e sciatto “metafumetto de noantri” di cui preferisco non dire…) consapevomente gestito, ossia proposto non per fare il piacione ma per lavorare e possibilmente andare ad incidere sulle strutture più intime del fumetto e sulla nostra percezione di lettori/lettrici.
Shintaro Kago dà l’impressione di lavorare “a nudo”, senza protezioni di sorta, di mostrare a noi che stiamo al di qua della pagina quali sono i meccanismi più profondi che sottostanno alla creazione del fumetto.

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shintaro_kago_04_iRicordi

Oppure Shintaro Kagoè un furbacchione alla moda e io ci sono cascato in pieno. Tutto è possibile. Certo è che Uno scontro accidentale sulla strada per andare a scuola può portare a un bacio? difficilmente può lasciare indifferenti chi, come noi lettori e lettrici mangofili italiani/e, è abbastanza a digiuno di traduzioni di opere giapponesi che escono dai canoni cui siamo (sia chiaro: piacevolmente) abituati/e. Insomma: qui siamo abbastanza al di fuori dai vari shonen, seinen, shojo, josei, BL o vari altri marchi di selezione-target.

Ma lasciando perdere le classificazioni – cosa difficile, perché classificare è più facile che ragionare e farsi venire qualche idea decente su un volume che di idee ne ha a bizzeffe, underground o mainstream che siano – cerchiamo di entrare un po’ più nel concreto di questo strano e benvenuto volume.

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Dicevamo: storie brevissime, molte delle quali formate da una sola tavola composta da poche vignette, altre ancora formate da un unica splash-page, che generalmente scoppia di particolari e spesso cerca di uscire dalla pagina stessa. Tutta roba disegnata molto bene: l’autore sciorina con nonscialanza vari stili e pare padroneggiarli tutti più che bene.
Le storie sono tutte impregnate di crudeltà e ironia, ma al contrario di molta roba che va per la maggiore in questi periodi così ideologicamente poveri (cinismo un tanto al chilo, violenza per la violenza, torture-porn et similia) non sembra esserci nell’autore una volontà di – banalmente – stupire, ma piuttosto di divertire e sovvertire alcuni meccanismi della stessa narrazione a fumetti.

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Geniale ad esempio Mistero a Margintown, in cui l’autore lavora su uno dei più interessanti meccanismi del linguaggio fumettistico: quello della closure[2]. Vedremo quindi la storia svolgersi, letteralmente, “al di fuori” delle vignette e l’effetto è alquanto straniante (e in qualche modo benefico!).
O come in L’Apollo non è andato sulla Luna (forse la mia storia preferita; è anche una delle più “lunghe”), in cui teorie del complotto si mischiano allo scorticamento dell’ultimo “schermo” che ancora separa autore e chi legge. E la maestria in questo caso sta nel giocare con un linguaggio facendoci credere che lo si sta scardinando – magari insieme, in un diabolico patto autore/lettore – mentre invece la finzione non è mai stata così… finzione. Bisogna leggere per rendersi conto. Su binari simili si muove anche Morte di una mangaka, storia che farà faticare non poco noi che stiamo “aldiqua” della pagina stampata…

Altre storie – ricordo nuovamente che ce ne sono QUARANTASEI (!) – giocano sul binomio carne e macchine, non certo un connubio nuovo né particolarmente originale, ma ben orchestrato da Shintaro Kago, come ne I ricordi sono più incerti di quel che si pensi. (Non sono dei gioiellini anche i titoli?…)

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Altro campo congeniale al nostro è il nonsense: non saprei come altrimenti chiamare le assurdità, però molto molto comiche, di La spaventosa città delle locandine o Sportello di ascolto per i bambini di tutto il paese (vi fanno venir gola questi titoli, vero?) nei quali pare si mescolino un po’ a caso – un po’ no – ricordi ancestrali, idee – generalmente crudeli e sadiche - che tutt* abbiamo avuto nella vita una volta o l’altra.
Nonsense assoluto, oppure lo capiscono solo le persone Giapponesi, l’incredibile Il paradiso dei chonmage, nel quale giganteschi uomini nudi poggiano il loro… beh, leggetevelo un po’ da voi!

E a proposito, il sesso, quasi sempre accompagnato dalla morte, fa la loro comparsa in modo sistematico nella maggior parte delle microstorie: elemento essenziale ma naturalmente mai e poi mai visto o descritto come un qualcosa di “naturale” o di “positivo”.

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Merita un cenno specifico la storia che fa anche da titolo all’intero volume, in quanto paradigmatica delle tematiche e del modo di affrontarle dell’autore: Uno scontro accidentale sulla strada per andare a scuola può portare a un bacio? è uno dei microracconti più lineari e comprensibili, in cui è eccezionalmente rispettata la normale sequenza temporale, spaziale e causale degli eventi; è anche uno dei racconti più comici, pur nella sua spaventosa crudeltà. In queste quattro tavole troviamo tutto ciò di cui abbiamo parlato sino ad ora e in più quello che non avevamo ancora detto, ossia la critica sociale. Una critica non ideologicamente orientata, bensì priva di qualsiasi connotazione positiva o “miglioratrice”; più che una critica forse è un mostrare senza tirarsi indietro e senza (troppo) giudicare. In diverse storie, tra le quali la title-track, è presente in modo nient’affatto velata la critica alla venerazione del denaro; ma è una critica che come dicevo poc’anzi non è fatta in modo moralista, ma anzi in maniera del tutto disincantata e, come dire, documentaristica.

E via così, passando per tavole mute, storielle con alieni, mutilazioni chirurgiche, risate, fluoroscopie, fino ad arrivare alla crudelissima e disturbante sequenza di Tubi, in cui pare che l’autore si lasci andare al puro orrore, un orrore descritto e non per questo meno assurdo.

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E’ difficile per me immaginare che idea ci si possa fare del volume da queste mie righe, ma certamente non è l’idea “giusta” visto che non è semplice neppure avvicinarsi a descrivere in modo minimamente comprensibile quest’opera. Per lo meno: per me non è semplice, grazie anche al forte coinvolgimento emotivo (e, in parte, sensoriale) provocatomi da queste storie di Shintaro Kago.

Posso solo terminare facendo nuovamente i complimenti a Hikari per la scelta e posso, anzi devo, consigliare la lettura di Uno scontro accidentale sulla strada per andare a scuola può portare a un bacio? a chiunque si sia sentito minimamente attratto/a da quanto scritto fin qui.

Detto ciò, vi saluto.

Orlando Furioso

 

Note:

[1] Possiedo da quasi vent’anni un prezioso volume americano, Comics Underground Japan, che mostra molto, molto più di quanto si sia mai visto qui da noi in fatto di manga autenticamente underground. Il volume viene citato QUI (in italiano; quando ho visto quest’articolo, quasi mi sono commosso…)

[2] Non sono riuscito a trovare una definizione decente di “closure”, in rete… è perché sono un incapace o perché oramai di queste cose non se ne interessa più nessun* ?… Comunque c’è sempre Understanding Comics di Scott McCloud, se si vuole approfondire. Una lettura che consiglio a chiunque ami i fumetti (di qualsiasi “genere” e nazionalità essi siano).

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Lo Squalificato

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Lo_Squalificato_cover_2

Lo Squalificato

di Usamaru Furuya

tratto dal romanzo
di
Osamu Dazai,
pubblicato in Italia da Feltrinelli

3 volumi, concluso
(prima edizione Giapponese: 2009)

vol. brossurati con sovraccoperta;
b/n

Euro 6,50 cad.

Planet Manga
.

In genere diffido delle opere “tratte da”. Diffido dei film tratti dai libri, degli anime tratti dai manga (ancor di più dai manga tratti dagli anime) dei fumetti tratti da romanzi.
E’ una scuola di pensiero un po’ pedante che si basa su pregiudizi e che suppone che “l’originale” sia sempre “meglio” dell’opera “derivata”.

Com’è ovvio, sono stato smentito molte volte (e molte altre no), ma ci sono casi – come quello di cui vado a parlare – in cui il problema non si pone, né si porrà.
Lo Squalificato, il manga di Usamaru Furuya, tratto dal romanzo di Osamu Dazai, mi ha talmente colpito, toccato e mi è talmente piaciuto che, nonostante abbia già deciso di leggere presto il romanzo originale, sono certo che non soffrirà nel confronto.

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Furuya_01

Lo Squalificatoè una forte botta allo stomaco e allo spirito; non ho ancora completamente compreso se questa botta sia salutare e stimolante o se favorisca la presa di coscienza dell’ineluttabilità del male.
Questo nonostante Furuya inviti chi consideri questo manga privo di speranza “a leggere il romanzo. Lì troverete– prosegue Furuya – la disperazione…”. Quella vera, sottintende.
Il romanzo originale scritto da Osamu Dazai fu pubblicato nel 1948, pochi mesi prima del suicidio dell’autore.

Il racconto – che è ambientato nel nostro tempo - è inserito in una cornice realistica: il mangaka Usamaru Furuya cercando ispirazione per una storia si imbatte casualmente nel “diario” di Yozo Ooba. La lettura del “diario” lo disgusta e lo affascina al tempo stesso, al punto che decide di trarne un manga. Che è quello stesso che noi lettori/lettrici stiamo leggendo… In realtà l’intersezione tra racconto di finzione e “realtà” è più complesso e sottile: qualcuno parlerebbe di “metafumetto”, ma non so se sia corretto usare quel termine in questo caso.

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Yozo_02

La disperazione comunque la troviamo anche in ognuno di questi tre sconvolgenti volumi a fumetti. Come in un “romanzo di formazione” al contrario: la destrutturazione procede inesorabile pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, sebbene temuta e combattuta fin dall’infanzia da uno Yozo– il protagonista - terrorizzato, ma deciso a non mostrare mai gli abissi che si spalancano minacciosi dalle profondità della sua anima.
Yozo, scende giorno dopo giorno in un baratro sempre più oscuro e privo di speranza. Mi rendo conto che tutto ciò possa suonare banale e già sentito infinite volte, ma alla luce della lettura del manga – sola condizione per entrare pienamente nel devastante mondo di Yozogarantisco che quanto detto assumerà certamente un significato molto più profondo.

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Lo_Squalificato_03

Yozoè stato dotato dalla natura di un aspetto molto bello che, indipendentemente da quelle che possono essere le sue reali intenzioni, affascina e intenerisce le donne. Non è malvagio. E’ il terrore a farlo agire come agisce. Le sue colpe, da cui tutto il resto deriva, sono il terrore e la conseguente debolezza.
In certi punti del manga si potrebbe pensare alla cronaca, spietata e impietosa, di una depressione… ma non è così: il male di Yozo non è una momentanea interruzione nella comunicazione con “l’esterno”; la causa del malessere che permea la sua esistenza non può essere rimossa e non è temporanea, quasi derivasse da potenze sovrannaturali e crudeli.

Mentre leggiamo la vita di Yozo e delle persone che hanno a che fare con lui, che vengono sempre – com’è ovvio che sia – contaminate e devastate dalla sua vicinanza, non siamo commossi né “dispiaciuti” nel senso normale del termine, no: siamo semplicemente atterriti/e e ben felici di essere altro da lui.

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Yozo_04

Nel corso della sua storia Yozo viene coinvolto  in varie vicissitudini, alcune comuni altre decisamente meno, che vanno per esempio dal sesso all’alcool al contatto con gruppi terroristici alla frequentazione di bordelli, ma non è mai chiaro quanto tutto avvenga “suo malgrado” e quanto per scelta cosciente e questo ravviva la curiosità e l’interesse di chi legge; arriva anche a vivere momenti di situazioni che si avvicinano alla “normalità”, ma tutto è sempre avvolto da una densa nube di fatale e cupo destino che sembra proprio non prevedere salvezza alcuna.

Le persone che lo avvicinano, la maggior parte di coloro che hanno a che fare con Yozo, soprattutto le donne, è come se si aprissero completamente a lui restando senza difese. Altri invece lo combattono e godono delle sue sconfitte. Il male, che non a caso scrivo sempre con l’iniziale minuscola, permea il mondo di Yozo esattamente così come permea il nostro. Forse il mondo descritto e rappresentato ne Lo Squalificato non è altri che quello che possiamo vedere guardando fuori dalla finestra.

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Yozo_05

L’autore del manga, Usamaru Furuya, è davvero molto bravo nel coinvolgere il pubblico, nell’avvolgerlo in una spirale sempre più densa, cupa e malsana in cui violenza e disperazione si alternano a momenti – illusori – di “quasi-felicità”, che non faranno che rendere ancora più dolorosa l’inevitabile caduta.

Non so dire, non ancora per lo meno, se la costruzione dei personaggi del manga, che sono molti e molto vari, ricalchi quella degli originali del romanzo del 1948, ma intuisco che Furuya non ha effettuato una semplice “riduzione a fumetti” del romanzo di Dazai.
Non conosco le opere precedenti di Usamaru Furuya, ma quello che emerge dalla mia soggettiva lettura del manga è un’estrema facilità dell’autore a far recitare i personaggi in modo credibilissimo, emotivamente forte e, come già detto, coinvolgente. Credo sia molto difficile – se non impossibile -restare indifferenti alla lettura di quest’opera. Non so se all’interno della storia vi siano minime componenti autobiografiche del mangaka che possano averlo facilitato nella scrittura, o nella trasposizione, ma non mi sentirei di escluderlo a priori. Anche se in realtà la cosa non ha alcuna importanza perché come lettore mi concentro sull’opera e sull’effetto che produce in me: è l’opera che parla e ciò che dice è perfettamente sufficiente e bastante a se stessa.

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I tre volumi si eguagliano per bellezza e coinvolgimento, anche se personalmente ho forse una preferenza per la crudezza del secondo volume, a mio parere il più “realistico” e il più lucido. Oltre al fatto di provare un’enorme simpatia umana per la barista di mezz’età che gestisce la bettola in cui Yozo lavorerà per un po’: personaggio, quello della barista, che mi sarebbe piaciuto molto vedere maggiormente sviluppato. Credo di preferire il secondo volume anche per una sorta di mia personale auto-protezione: perché è proprio in questo volume che sembrerebbero porsi le basi per una risoluzione almeno minimamente positiva dell’angoscia e del terrore fin qui vissuto da Yozo.  E’ in questo secondo volume che Yozo comincia un’attività di onesto lavoro che sembra, per qualche momento, dargli un barlume di conforto e persino di piacere. Fino a che…

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I disegni di Furuya sono tecnicamente ineccepibili, curatissimi e molto espressivi, come si può vedere dalle immagini a corredo di questo scritto che ho scannerizzato personalmente dai tre volumi: l’estrema bellezza di alcuni dei personaggi è evidenziata con vera maestria, certi volti sono uno spettacolo da guardare incantati/e; altrettanto succede per la bruttezza e lo squallore, descritti graficamente senza filtri e che risultano non meno affascinanti dei lati “belli” di cose e persone.
Le tavole del manga sono fitte di vignette – lo stesso dicasi di dialoghi e pensieri, che si alternano con le frasi del “diario” del protagonista - e tutto questo rende la lettura particolarmente coinvolgente soprattutto dal punto di vista emotivo.

L’autore riesce a passare con disinvoltura da una sorta di realismo (sempre mediato da alcune, apprezzabilissime, stereotipie) a descrizioni al limite dell’horror e decisamente inquietanti non per quello che mostrano, ma per ciò che fanno immaginare.

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Come si può capire da quanto scritto sin qui, Lo Squalificatoè un manga adulto, che tocca temi tutt’altro che leggeri e che non provoca allegre evasioni, ma potenti riflessioni e un certo disagio esistenziale, specialmente se si ha dentro di sé qualche malinconia che preme per uscire.

Perché leggerlo allora?
Perché, banalmente, è un manga bellissimo.
Perché è una storia che non si dimenticherà facilmente, perché possiede un incredibile fascino morboso che non va negato, perché è una storia romantica, non nell’usuale senso che diamo ormai a questo abusato termine, ma romantica in un senso antico di Sturm und Drang, in cui energie opposte combattono per la sopravvivenza o meno degli esseri umani, perché sicuramente arricchisce chi la legge e fa (molto) riflettere: tutte cose estremamente positive che più vengono stimolate e meglio è. Ma potrebbe bastare anche “solo” il fatto che si tratta di un manga stupendo e magnificamente costruito.
Buona lettura.

Orlando Furioso


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5 scatoloni

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5_scatoloni

5 scatoloni pieni di manga
(solo manga!)

di Autori/Autrici Vari/e

serie complete,
interrotte,
numeri sfusi,
volumi unici,
vari

donatrice: Simona

Case Editrici Varie

 

Tempo fa, per la precisione diciotto mesi or sono, Simona (sempre sia lodata) mi regalò cinque scatoloni pieni di manga. In cambio di nulla. Così: “Senti, vuoi cinque scatoloni di manga? Non so più dove metterli…” e io, che ben meno di lei sapevo e so dove metterli, accettai con immensa gioia [1]. Perché c’è sempre questa compulsività assurda a comandare sulla mente razionale, quel po’ che ci resta, che porta noi nerd all’accumulo bulimico. Ed è proprio, temo, l’accumulo in sé a dare la maggiore, e perversa, soddisfazione a gente come me. Più ancora che leggerne, l’importante è averne!

[Ci faccio le battute in pubblico, ma in realtà quello della compulsività è un problema che prima o poi dovrò ben affrontare. Magari prima che crollino i pavimenti di casa per il troppo peso delle librerie, per esempio… o magari anche prima di rendermi pienamente e spietatamente conto che non riuscirò nemmeno in tutta la vita a leggere tutti i fumetti – e i libri – che sto accumulando… E in effetti c’è ben poco da far battute.]

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La mia lentezza nella lettura è proverbiale.
Ma non lentezza nel senso di “lentezza”, ché anzi spesso divoro un paio di libri a settimana.
Lentezza nel senso di “roba arretrata”, che è la diretta conseguenza del discorso dell’accumulo fatto qualche riga fa.
Ho da leggere dei volumi a fumetti comprati a Torino Comics. Intendo l’edizione del duemilaedieci. Ho da leggere intere serie complete comprate tra il duemilaetre e il duemilaesette.
Continuo a comprare serie complete di manga che non so nemmeno se leggerò mai… (Non ho più vent’anni)

Si può vedere che c’è ben poco da far battute e anzi vedere “nero su bianco” questa realistica e cruda confessione non mi fa stare esattamente benissimo. Potrà almeno, spero, essere uno stimolo per affrontare una buona volta il problema, seriamente.

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Comunque, visto che questo blog non ha mai avuto una rubrica, ne inauguro una proprio oggi che si chiamerà: Cinque Scatoloni, ossia commenti sui manga contenuti nei cinque scatoloni regalatimi da quella santa donna di Simona. Sarà una rubrica assolutamente irregolare, aperiodica, a ispirazione del momento e talvolta servirà per compensare i miei numerosi e lunghi momenti di pigrizia.

Ma torniamo finalmente al contenuto degli scatoloni di Simona, anzi oramai irrimediabilmente miei.
Dentro i cinque scrigni delle meraviglie– perché, altra cosa strana: i fumetti regalati, avuti cioè senza merito alcuno, sono sempre più golosi di quelli onestamente guadagnati col sudore della fronte – c’erano principalmente shojo manga. Chi non sa cosa siano è sul blog sbagliato. Addio!
Simona ama principalmente gli shojo e anch’io, pur non essendone minimamente esperto (anzi, diciamo pure che pur leggendone da qualche anno sono e resto un dilettante), ne ho apprezzati e ne apprezzo molti. [2 – Nota Luuunga].

Cosa c’era, allora, dentro gli scatoloni?
Lo scopriremo pian pianino, specialmente durante le mie sempre più frequenti “crisi creative” (= “non so [di] cosa diavolo scrivere!”), magari cominciando proprio da ora! [3] 


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B - Girls Private High School
(Shiritsu! Bijinzaka Joshi Kōkō)

di Mayumi Yokoyama

3 volumi, pubblicati nel 2004 in Giappone e nel 2006 in Italia da Flashbook


euro 5,90 cad.


La prima cosa da dire di questa miniserie di tre volumi è che è tutto tranne che noiosa! Una sarabanda di avvenimenti, capovolgimenti di situazioni, momenti di tensione, “non è come sembra”, tanto amore e, ovviamente, l’immancabile lieto fine rendono la lettura di questo “manga per signorine” (“Girls Comics Series” recita lo strillino nelle copertine) una deliziosa evasione dall’orribile realtà quotidiana.

Protagonista assoluta della storia è la giovanissima Nonomiya En, piena di energia vitale e per questo casinista e insofferente alle regole troppo rigide, generosa, bella e decisa… salvo trasformarsi in una mammoletta tenerosa e cucci-cucci non appena s’innamora… (ma non è un po’ così per tutt*, dico: anche nella vita reale?…).
I “guai” combinati dalla frizzantissima Nonomiya En– dovuti principalmente e sostanzialmente alla sua esuberanza – portano suo padre alla decisione di trasferirla in una scuola più severa, la Scuola Femminile Bijinzaka nella quale la nostra dovrebbe imparare a diventare una signorina come si deve. Il trasferimento di scuola coincide con la separazione dal migliore amico di Nonomiya En, il bel Youhei dall’improbabile pettinatura ma con un cuore grande e generoso.

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L’ingresso nella nuova scuola femminile non è dei più lieti; anzi detto l’ingresso viene bellamente posticipato con decisione unilaterale: En [d’ora in poi la chiamiamo così, che è più veloce] marina la scuola già il primo giorno e incontra il misterioso Narushima Chihiro, aitante biondino con un segreto da nascondere. Dopo una tumultuosa “presentazione” tra i due, che avrà molte dense conseguenze, En decide di rientrare a scuola.
Dove si troverà subito a dover affrontare la Banda di Maya, che la vesseranno mica poco; ma ancora più temibile sarà il Comitato Disciplinare (di cui la Banda di Mayaè uno dei “bracci armati”), una sorta di Massoneria para-nazista che tiene le redini della Scuola Femminile Bijinzaka. Mettersi contro il Comitato Disciplinare significa andare incontro a grossi guai… a meno di non avere l’energia che pervade En e le sue insospettabili alleate, accomunate dalla voglia di non soccombere passivamente alle rigide regole della Scuola!

E’ interessante notare che la disobbedienza di En inizialmente pare investire principalmente l’abbigliamento:

“Non ti è ancora arrivata la divisa? Sappi che i Loose Socks sono severamente proibiti. Inoltre sono vietati i capelli tinti e la permanente. Quel colore non è naturale, vero?…”

I suoi Loose Socks– orrendi calzettoni lunghi portati allentati sui polpacci a coprire mezza scarpa – e i suoi capelli sono il simbolo del suo non volere uniformarsi. Per chi, come il sottoscritto, a vent’anni andava in giro con una mohicana e i calzoni pieni di borchie e bondage, questo non è un elemento trascurabile. Anche se per quanto mi riguarda c’era un’idea sottesa un tantino più elaborata, che non il solo “mi-vesto-come-mi-pare”. Ciò nonostante lungi da me sminuire l’importanza del messaggio che si lancia al mondo col proprio abbigliamento.

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E’ anche interessante che proprio la “ribellione” all’acqua di rose di Nonomiya En diventi il principio scardinatore dello strapotere-nazi del Comitato Disciplinare, che nell’arco dei tre volumi rivelerà infine la sua vera essenza, anche e soprattutto da un punto di vista simbolico. E sarà, naturalmente, sconfitto.
Come in ogni shojo sessista che si rispetti, anche qui il centro, le “potenze oscure” – verrebbe quasi da dire “i protagonisti occulti” - attorno a cui ruota il mondo, sono i maschi (i ragazzi).
I bellissimi Chihiro e Youhei avranno un ruolo fondamentale - sia direttamente agito che immaginato (dalle ragazze, da En in particolare) - per lo sviluppo della trama, e per le sottotrame di cui si arricchisce via via la storia, sottotrame che rendono la lettura ancor più vivace e divertente.

Anche il sesso fa la sua comparsa in questo manga, in un modo – di nuovo – interessante, visto che vengono tenute in considerazione (anche soltanto mostrandole in modo non-giudicante, che è già qualcosa!) le esigenze sessuali delle ragazze… beh, veramente solo quelle della protagonista En, ma, ripeto, per me è già importante che si tenga in considerazione il fatto che le ragazze non sono semplicemente oggetti sessuali ma hanno (toh!) delle esigenze proprie e non necessariamente identiche a quelle dei maschi. Siamo lontanissimi da un’ottica smut: in B-Girls Private High School il sesso c’è, è un motore importante per determinate azioni e pensieri, ma non viene mostrato.

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Insomma, il sesso esiste, ma non ha una parte preminente nella storia. Intrichi, intrighi e misteri, al limite della credibilità (ma comunque molto divertenti!) hanno un ruolo grosso nello svolgersi della storia e come dicevo più sopra impediscono anche il minimo accenno di noia durante le lettura.
Accadono persino rapimenti, identità segrete vengono svelate, misteri si risolvono, veniamo a conoscenza di strane relazioni incentrate sul mero possesso e/o su malcelate forme di masochismo… ma su tutto viene riversata una cascata di gag comiche a mio parere ben organizzate e in definitiva piuttosto riuscite!
La scrittura di Mayumi Yokoyama sembra muoversi agevolmente tra una vivacissima rutilanza di accadimenti, senza però che si perda mai il filo e senza bruciare la molta, moltissima carne messa al fuoco. Tutto, alfine, viene risolto.
Si sorride molto durante la lettura e si tifa sfegatatamente per la simpaticissima Nonomiya En che, per quanto in parte stereotipata, non manca di mostrare una sua autonoma personalità, seppure sempre in un’ottica non propriamente femminista.
Molto dolci e toccanti, e divertenti per quanto non originalissimi, i momenti di solidarietà, di aiuto e reciproco sostegno e i discorsi tra ragazze sul sesso.

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Per quanto riguarda il disegno, nulla di spettacolare, ma tutto ampiamente sopra la soglia del dignitoso: i personaggi di B-Girls Private High School hanno personalità sia psicologica che grafica, sono disegnati in maniera accattivante e ogni personaggio è sempre perfettamente riconoscibile. E’ un manga incentrato sui personaggi, visto che gli sfondi per la maggior parte delle volte sono appena delineati, abbozzati giusto per far comprendere l’ambiente in cui ci si trova/muove.
Dialoghi e pensieri non sono mai lasciati all’immaginazione, infatti è un manga parlatissimo, zeppo di balloons; nonostante ciò non mi sono mai annoiato nella lettura perché Yokoyama gestisce i dialoghi e i pensieri in modo sì intenso, ma sempre comprensibile.
Tornando ai disegni: pochissime le situazioni “eccessive” (tipo super-deformed), grande uso di stereotipie, ma sempre con quel pizzico di originalità o anche solo di tocco personale, che rende il manga godibilissimo anche dal punto di vista grafico. Certo, se non si è dei maniaci degli sfondi…

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Consiglio la lettura di B-Girls Private High School a chiunque si senta attratt* dagli shojo non troppo infantili e abbia voglia di passare qualche oretta spensierata godendosi una storia sufficientemente appassionante e non infarcita di banalità, con una dose di sdolcinatezza non preponderante rispetto all’azione e alla trama generale.
Menzione d’onore per lo spettacolare e simpaticissimo trio “hip-hop”, di cui si può vedere un’immagine proprio qui sopra.

 

Orlando Furioso

Note:

[1] Per ricambiare in qualche modo le ho prestato Maison Ikkoku della Takahashi, che Simona non aveva mai letto. Chi conosce la mia passione per questa storia meravigliosa può capire quanto sia stato difficile per me separarmi temporaneamente da quei 27 volumetti…

[2]…con un po’ di “sensi-di-colpa”, perché la già citata mancanza di tempo, la lentezza nella lettura e la pigrizia congenita, mi farebbero, per così dire, “sprecare” molto e prezioso tempo per “collezionare, likare e “studiare” in modalità fan generiche opere pop di scarso valore” [come dice Elvezio]
(ho estrapolato dal contesto eh, mi serviva solo la citazione; ma comunque gli articoli di Elvezio sono meravigliosi e utili eccome! Mi fanno pensare e strapensare)

Ma poi, mi dico – e mi salvo – in realtà ogni lettura, ogni opera, ogni cosa che fa pensare e riflettere è cosa buona e giusta per me, è “adatta a me”, mi fa del bene. Al di là di qualche sacrosanto, e sano, momento di purissima evasione durante il quale il riflettere non è richiesto, anzi non è proprio gradito, molti shojo manga sono per me fonte di riflessione; non saranno magari riflessioni che produrranno chissà quale cambiamento nella mia vita o nel mondo, ma sono pur sempre riflessioni e come tali sono benvenute.

…Ma poi: perché il metro di giudizio deve necessariamente cambiare perché stiamo parlando di produzioni nipponiche?
Il pregiudizio anti-nipponico è così radicato da richiedere giustificazioni per il piacere provato durante una nippo-lettura?
Evidentemente sì, visto che sempre più spesso vedo post – su fb o altrove - infarciti di pregiudizi (tra l’altro: di solito maschilisti e sessisti) sui manga e gli shojo in particolare.
Mmmmhhh… commenti maschilisti e sessisti su shojo che spesso sono maschilisti e sessisti… interessante, no?

Un grande scrittore come Gianni Rodari– le cui storie amo e rileggo fin da quando avevo cinque anni – spesso ingiustamente citato per le sue dichiarazioni “anti-cartoni giapponesi” scriveva:

"Gli albi di Goldrake, i libretti di Heidi e così via, qualche volta sono anche brutti, vuoti, innocui, ma anche i bambini - come gli adulti - hanno diritto ad avere letture di diverso peso, comprese quelle in cui sfogano il loro bisogno di fantasticare[...]"

(Articolo pubblicato su “Rinascita” nell’ottobre del 1980, pochi mesi dopo la morte dello scrittore)
Quindi abbiamo tutt* diritto a letture “brutte, vuote, innocue”, ogni tanto.
Però è anche vero che Rodari scriveva prima del “politically correct”.

Ma perché a Topolino, per fare un esempio, non si richiede di essere “giusto”? Perché leggere Topolino“va bene”, sempre, a qualsiasi età, indipendentemente dal “messaggio” veicolato (che non va al di là di un generico “buonismo” all’acqua di rose) e anzi, “fai del bene all’editoria italiana e alla diffusione del fumetto tra i giovanissimi” mentre se leggi uno shojo manga magari non da premio nobel per la letteratura, metti a rischio la tua e l’altrui intelligenza e la pace nel mondo? 

Io amo ancora Topolino & Co. (intesi come produzioni Disney italiane e non) e non ho problemi in merito, ma tendo a giustificarmi, o a sentire di doverlo fare quando leggo qualche manga che non sia underground o premiato da qualche giuria di intellettuali colti - e possibilmente occidentali.
Mi sento a mio agio nel leggere la più sciocchina delle storie Disney (sempre per restare sullo stesso esempio) ma mi sento un po’ impacciato, “in colpa” e “fuori posto” quando leggo una produzione giapponese magari un po’ sciocchina.

Potrebbe essere perché sono vicino ad alcuni dei messaggi veicolati da Disney sin dai tempi della mai dimenticata Elisa Penna, come il vegetarianismo hardcore e un generico e non troppo radicale “ecologismo”, mentre non sono vicino a certe ideologie che permeano molti degli shojo manga che leggo, come il maschilismo, l’immagine della ragazza/donna completamente dipendente dal ragazzo/uomo, un generico sessismo…

Se così fosse, l’equazione “lettura – agio/non agio” risulterebbe sbilanciata sempre a sfavore delle produzioni Giapponesi (ma perché? Perché han perso la guerra?…)

Usciamo dal Disney-loop, altrimenti pare di avercela per partito preso, mentre c’ho la casa zeppa di produzioni Disney e continuo a riempirmela: avete presente i volumotti che escono ogni lunedì in edicola con l’opera omnia del sommo Romano Scarpa o Uack o Pocket Love (gli shojo-Disney)? Sono un felice acquirente-lettore di molte produzioni Disney e non ho alcuna intenzione di smettere.

Ma torniamo ai manga, anche quando ideologicamente scorretti, comunque adorabili, così divertenti e appassionanti, nonché forieri di assurdi sensi-di-colpa…

[3] Di una prima miniserie contenuta negli scatoloni ho parlato qui.

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B_Girls2_cover

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B_Girls3_cover


Fondobosco

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Fondobosco_cover

Fondobosco

di Marco Bailone


vol. brossurato (Grande formato)
con bandelle
80 pag. b/n

euro 10


Tabor edizioni

.

Marco Bailone ha realizzato un opera a fumetti molto più vasta della dimensione delle pagine o dello spessore del volume. Una sensazione di vastità cosmica pervade infatti la storia di Fondobosco. Sono da sempre appassionato di Miti e credo di saper riconoscere un contesto mitico quando lo incontro: un pizzicorino all’altezza dello sterno, le dimensioni e i confini che improvvisamente diventano relativi, la sensazione di poter trascendere limiti che ci siamo auto-imposti per tuffarci in un Onda ben più vasta di quanto si possa immaginare, onnicomprensiva…
Naturalmente sto parlando di lasciarsi andare con la fantasia, nulla di realmente concreto, per carità.

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Fondobosco_01

Fondobosco col suo bianco e nero denso e potente, ha il potere di lasciarmi intravedere un qualcosa d’altro, un di più e un al di là (che nulla c’entra con l’Aldilà), un qualcosa di molto simile allo stato di stupore che provavo da bambino quando qualcuno mi leggeva una storia fantastica, o come quando me la leggevo da solo, imboscato sotto l’enorme tavolo della cucina.
Per un po’, anche dopo che la lettura era terminata, mi ritrovavo in una sorta di “metà-strada”, tra il qui-e-ora e un Altrove di cui, sebbene non esista (…), ero riuscito a intravedere un pezzetto, a respirarne un po’ dell’atmosfera.

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Fondobosco_Pinot

Fondobosco mi ha portato di nuovo , in Quel Posto cui non credo, ma nel quale mi rifugio più spesso di quanto io stesso non voglia ammettere; Fondoboscoè una storia a fumetti che contiene un “di più” in simboli, magia, follia. E anche Morte e Rinascita, certamente, come ogni opera magica deve contenere. Molti simboli sono riconoscibili da chi mastichi un po’ di Queste Cose; altri forse esistono solo nella fantasia dell’autore, ma non per questo sono meno efficaci.

La storia di Fondobosco racconta di quel che successe a Giuseppe Pellegrino detto Pinot quando, una mattina, volle andare ad abbattere un vecchio larice. Forse osò toccare l’albero sbagliato, forse era il suo destino da sempre, ma Pinot incontrò uno Spirito… Non solo la sua vita cambiò, ma si può anche dire che da quel momento finì e ricominciò per diventare un tramite tra le potenze della Natura e una sorta di Ragnarok senza Dèi che prelude a un nuovo mondo privo di male.
Il radicale cambiamento di Pinot non poteva essere accettato da coloro che un tempo erano suoi pari e così venne rinchiuso in modo che non potesse nuocere. Ma le potenze della Natura hanno molti modi per aiutare Pinot a portare a termine il suo sacro compito.

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Fondobosco_Pinot_scheletro

Fondoboscoè la storia di un uomo, ma soprattutto è una storia di spiriti dei boschi e della Natura tutta, di animali e visioni cosmiche, di morte e rinascita e infine di trasformazione della realtà tutta. Un’opera che pur senza avere in sé nulla di pretenzioso (è un complimento) persegue e a parer mio raggiunge un obiettivo ambizioso. Giocare con simboli e miti può portare, e spesso lo fa, a risultati pacchiani o freddi; ma quest’opera a fumetti di Marco Bailone contiene un tasso talmente alto di sincerità e amore che non si corrono rischi di quel tipo.

La breve introduzione del risvolto di copertina saggiamente recita: “…siete sulla soglia di una selva inestricabile di ispirazioni, rimandi, suggerimenti… Dovete perlustrarne i meandri, aguzzare la vista, riconoscere le tracce…” e così è, la lettura si fa esperienza intensa, misteriosa e magica…
Forse sembrano parole “grosse” per un fumetto di 80 pagine? Beh, miti e simboli sono cose grosse e a saperli maneggiare bene si ottengono grossi risultati. Parlo – come sempre - da un punto di vista prettamente emotivo, ma ritengo che anche da un punto di vista squisitamente tecnico l’opera sia ben riuscita e meritevole di lettura.

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Fondobosco_Dottore

I disegni di Bailone, spigolosi e suggestivi di per sé, mi hanno ricordato qualcosa del da me molto amato Matteo Guarnaccia, forse per alcuni ricorrenti motivi spiraleggianti (le nuvole, il vapore…) e nella descrizione grafica degli Spiriti, così alieni nonostante la loro forma ricordi in parte quella umana.

Non so spiegare il perché, e comunque non voglio che nessuno pensi che i disegni di Bailone manchino di originalità (così assolutamente non è), ma mi è venuto anche alla mente il grande e rimpianto Vaughn Bodé, che avrebbe potuto essere la vera Rockstar del Fumetto se solo non ci avesse lasciato così dannatamente presto (nel 1975 a soli 34 anni…). Non so se l’autore di Fondobosco conosca l’opera di Bodé o se sono solo io a intravedere qualche punto di collegamento tra loro; sta di fatto che anche in questo caso il mio vuole essere un complimento.

Ho apprezzato moltissimo i disegni di Fondobosco, specialmente le tavole o le grosse vignette raffiguranti gli animali (raffigurati in modo davvero potente, totemico, archetipico) e ho trovato particolarmente belle, suggestive e profondamente emozionanti l’ultima ventina di tavole, colme grandiosità e di magia, benefici abbagli per occhi e mente.

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Fondobosco_Pinot_02

L’opera a fumetti di Bailone oltre al suo essere magica e fantastica, contiene in sé anche una profondissima critica sociale verso un sistema di cose incentrato esclusivamente sul profitto (di pochi) ed è permeata da un panteismo e di un ecologismo hardcore che personalmente ho trovato dolce e tenero.
Il finale della storia per certi versi spietato, oltre a presupporre chissà quante altre potenziali storie a partire da esso, dà adito a numerose interpretazioni e farà certamente arrabbiare più d’una persona, specie chi pone la persona umana come centro immoto e significato ultimo dell’Universo.

Consiglio a chiunque si sia sentit* un minimo attratt* dalle tematiche sopra citate, e dalle sensazioni che ho cercato di descrivere, di leggere Fondobosco; a me stesso auguro di poter presto leggere altre opere a fumetti del suo autore.

.

“…Ecco l’Aprile
il fiore della vita
che l’aria è piena
di soave odor…”


Orlando Furioso

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Fondobosco_Gufo

Questo non è il mio corpo

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Questo_non_e_il_mio_corpo_cover

Questo non è il mio corpo
(Shibou toiu na no fuku wo kite)

di Moyoco Anno

josei, dramma psicologico
per un pubblico adulto

vol. unico autoconclusivo
brossura, 264 pag. b/n

edizione giapponese: 2002
edizione italiana: 2006

euro 9,50

Kappa Edizioni

.

“…E’ come se indossassi uno spesso vestito di carne… che non posso mai togliermi.”

Questo fumetto mi ha fatto molto arrabbiare. Mi è piaciuto parecchio: mi ha fatto molto arrabbiare e mi è piaciuto moltissimo (e mi ha reso assai triste).

L’autrice Moyoco Anno è già nota in Italia per lavori come Jelly Beans (Play Press), Sugar Sugar Rune (Star Comics), Happy Mania (Star Comics) e Tokyo Style (Panini Comics).

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Moyoco_Anno_Noko_01

Questo non è il mio corpo racconta il viaggio all’inferno di Noko Hanazawa, una giovane “office lady”, sovrappeso secondo gli standard dettati dalla moda e dai canoni imperanti delle riviste e della pubblicità.
Le “office ladies” sono quelle ragazze, donne, signore impiegate nelle aziende giapponesi, che non hanno alcuna possibilità di carriera, sono sotto-stipendiate rispetto ai colleghi maschi e hanno funzioni servili e compiti di poco conto (servire il caffè, fare le fotocopie e altri lavoretti poco impegnativi dal punto di vista intellettivo).
Noko ha un carattere debole e sottomesso e ha un fidanzato, Saito, che sembrerebbe apprezzarla così com’è, cioè con tutti i suoi “chili di troppo”. I quali sono dovuti a una sorta di rifugio nel cibo, creazione di una corazza di carne che dovrebbe avere lo scopo di mettere un ulteriore filtro tra Noko e un mondo cattivo e pieno di insidie.

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Moyoco_Anno_Noko_eat

”Se mangio mi sento bene. Finché posso mangiare, è tutto a posto” pensa Noko mentre si abbuffa di cibo in modo compulsivo e apparentemente gioioso. Il soffocante senso di sazietà offre un oblio che annichilisce e consola.
Naturalmente la bulimia e in generale i disturbi alimentari sono dei problemi tutt’altro che trascurabili e nascondono in essi pericoli così devastanti da mettere a rischio la vita stessa.
Ciò non toglie che a mio personalissimo parere Noko, anche nel momento massimo di sovrappeso, non è affatto diversa da milioni di signore al mondo, le quali indipendentemente dai loro “chili di troppo” possono essere belle o brutte. (…inutile sottolineare quanto “bellezza” e “bruttezza” siano stati soggettivi, tutt’altro che fissi e immutabili, anzi i cui “canoni” sono mutabilissimi spesso nel giro di pochi anni) [1]

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Moyoco_Anno_Mayumi_Saito

Ma, appunto, il problema di Noko non sono quei “chili di troppo”, ma la debolezza, la bulimia, l’esser grata quando qualcuno non la prende a calci, il dipendere da un fidanzato inetto e meschino oltre ogni dire, “forte” solo del fatto di essere uomo in una società maschilista. Il problema di Noko sono le strutture sociali riprodotte all’interno dell’azienda, le dinamiche di potere che fanno sì che si scatenino guerre tra oppresse in cui l’unico risultato sarà la distruzione delle “buone” e delle “cattive” e l’unica compagnia che non mancherà mai sarà quella della solitudine.

Con Questo non è il mio corpo la senseiMoyoco Anno affronta quindi, consapevolmente, un numero impressionante di tematiche delicatissime e di soluzione tutt’altro che semplice: bulimia e anoressia sono le più evidenti anzi la bulimia, è il fil rouge che è presente in tutta la storia. 
E oltre a ciò vengono crudamente – e crudelmente – affrontate le dinamiche di potere tra le persone, tra le donne e tra le donne e gli uomini, la dipendenza affettiva, la solitudine, gli stereotipi cui ci si deve adeguare per essere accettati/e socialmente e altro ancora.

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Noko Hanazawa ha contro il mondo intero (anche se bisogna dire che in questa storia chiunque pare aver contro il mondo intero…) e oltre ai suoi problemi di bulimia deve quotidianamente fronteggiare con scarsissimo successo una situazione di vero e proprio bullismo da parte delle colleghe “carine (perché magre)” e di ostilità sorda da parte dei colleghi maschi in quanto “cicciona”. L’aspetto determina lo status sociale, o meglio: l’aspetto esteriore determina la possibilità di essere accettate o meno nell’unica classe sociale tollerata per le donne, le “civette” “mangiauomini”.
E’ ovvio che ad un certo punto della storia Noko cerchi di mutare il suo aspetto esteriore cercando di perdere quei “chili di troppo”.

Ma può essere che uscire da quella prigione che è l’adeguarsi all’immagine che gli altri hanno di noi equivalga ad un surplus di emarginazione, perché non si ha più un “posto” (sia fisico che mentale) in cui stare, e perché alla fin fine forse è meglio “stare da qualche parte” e venire calpestate e odiate, ma avere almeno un/quel ruolo, che essere invisibile e scomparire a poco a poco. Questa mi sembrava essere la filosofia dominante nel manga.

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Subire senza reagire significa essere disprezzate e patire un grande dolore; ma reagire significa essere disprezzate, odiate e contrastate con ogni mezzo patendo così un ancor più grande dolore… queste mi sembravano le idee sottese alla narrazione di Questo non è il mio corpo e sebbene la storia mi appassionasse (in un modo profondo e doloroso), più leggevo e più mi arrabbiavo.

La rabbia in me era dovuta a molti motivi: mi arrabbiavo quando vedevo Noko subire senza reagire e quando vedevo Noko reagire nel modo sbagliato; mi arrabbiavo quando vedevo a che livelli di disumanità e crudeltà possono arrivare le persone – le colleghe, il fidanzato… - ed ero consapevole di non aver nemmeno la consolazione di pensare“tanto è solo un fumetto!”. Mi arrabbiavo quando vedevo quanto le dinamiche di potere fossero così profondamente radicate da esser date per scontate, come fossero leggi divine immodificabili. Vedere poi raffigurate nero su bianco le discriminazioni che le donne subiscono nelle aziende giapponesi e non solo, non è stato affatto piacevole.

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Ammetto di aver confuso, a causa della rabbia, il racconto con il messaggio, di aver semi-consciamente pensato che l’autrice avesse un atteggiamento passivo rispetto a questo tipo di problematiche, come se narrandole le approvasse o peggio ancora come se il racconto manifestasse l’ideologia dell’autrice.
Come se il racconto di un omicidio facesse dell’autore/autrice un assassino/a.
Ho avuto, in pratica e senza mezzi termini, un attacco di idiozia e di messa in stand-by del cervello dal quale però mi assolvo per ben due motivi: il primo è che evidentemente l’autrice è stata così brava che è riuscita a farmi arrabbiare oltre misura, e sono certo che questo fosse uno degli scopi di Moyoco Anno quando ha realizzato il manga; il secondo motivo è che mi voglio bene e mi autoassolvo facilmente.

Ma dunque, infine, sta alle autrici e agli autori, di fumetti e in generale, il dare ricette per risolvere i guai del mondo? Non credo proprio. Quando, rientrando in me, ho compreso questo, la rabbia è sbollita ed è rimasta una grande tristezza…

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Non mi è possibile analizzare “tecnicamente” questo fumetto e probabilmente anche se ne fossi capace non vorrei farlo in quanto lo smottamento interiore che la sua lettura mi ha provocato mi fa decisamente uscire da qualsiasi minima pretesa di “obiettività”. E’ una manga che ha instillato in me sensazioni profonde molte delle quali non piacevoli, ma importantissime e necessarie e per questo motivo lo amo e lo amerò particolarmente, accettando (forse) anche le numerose contraddizioni dalle quali non è certo scevro.
E’ un manga durissimo che consiglio vivamente a chiunque, purché con un minimo di maturità (che è altro dall’età anagrafica, naturalmente).

Ci tengo infine a dire che le immagini che si vedono in questa pagina ben poco hanno a che vedere con l’edizione cartacea italiana di Questo non è il mio corpo, in quanto trattasi delle solite scan inglesi che nonostante la buona volontà degli/delle scanners non riproducono minimamente la bellezza essenziale delle tavole del manga. Le uso per puro egoismo, per non “rovinare”, scandendolo in casa, un volume che possiedo da pochissimo ma al quale sono già intimamente legato.

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Moyoco_Anno_Mayumi

Il segno della senseiMoyoco Annoè durissimo e pulito, spigoloso e comunica perfettamente ad occhi e mente ogni minima sensazione anche solo accennata. E’ un segno quindi estremamente espressivo, una linea chiara in cui le ombre sono quasi del tutto assenti, a tratti realistico e a tratti esasperato; non è troppo descrittivo, talvolta è minimale nella definizione delle figure e nel panneggio e gli ambienti non sono descritti con troppa cura, perché il segno è tutto concentrato sulla narrazione dei sentimenti dei personaggi. E’ un tipo di disegno che d’ora in poi amerò tantissimo.

Splendide recensioni di questo manga si possono leggere ai seguenti link:

Acalia

Caroline

Yue

Lino

Orlando Furioso

 

Note:
[1]
“Storia della Bellezza” e “Storia della Bruttezza”, di Umberto Eco, Bompiani editore, 2004

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Oldies and goldies

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I Segugi_cover

I Segugi

di J.M. Burns, disegni
e L.A.J. Lilley, testi

volume di piccolo formato,
brossurato, 128 pag., b/n

edizione italiana: 1976

Lire 500

Milano Libri– collana I Gialli a Fumetti, n. 2

.

Trovato in una delle molte bancarelle dell’usato presenti a Torino, ho sborsato volentieri i 5 euro richiestimi per questo fascinoso volumetto “antico”. Poi, cercando informazioni in rete sugli autori di questa serie, ho scoperto che l’avrei trovato praticamente ovunque (da ebay ad Alessandro Distribuzioni) a un terzo del prezzo cui l’ho pagato… E vabbè: sosteniamo i piccoli gestori di bancarelle dell’usato, amen.

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Ho preso questo volumetto per i seguenti motivi: 1. perché completamente affascinato dalla (brutta) copertina dell’uomo con la maschera da teschio, che mi ha – neanche da dirlo – ricordato il mio amatissimo Kriminal; 2. perché appena aperto il volumetto sono rimasto incantato dai disegni che, non chiedetemi perché, ho subito capito essere inglesi!; 3. perché edito da Milano Libri, una storica, gloriosa e amatissima Casa editrice che ha segnato la storia del fumetto italiano (e della quale purtroppo non esiste neppure una pagina su Wikipedia!…) pubblicando dalla rivista Linus nei suoi migliori anni ai volumi di Corto Maltese, alla Valentina di Crepax al sontuoso Jeff Hawke a mille e mille altri meravigliosi libri a fumetti.

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La collana I Gialli a Fumetti, che Milano Libri editò nel 1976, durò soltanto pochi numeri (tra i quali Modesty Blaise, Alack Sinner, Fu-Manchu e Cannon) che sono ancora tutti reperibili, a prezzi più che abbordabili, su ebay o in altri luoghi deputati alla compravendita di fumetti usati e d’epoca.

E’ stato molto difficile reperire qualche (scarsa) informazione sugli autori de I Segugi (The Seekers in originale), serie che fu pubblicata sul quotidiano inglese Daily Sketch dal 1966 al 1971.

Il disegnatore inglese John M. Burns, nato nel 1935, ha cominciato la sua carriera nel 1954 ed è ancora in attività. Ha disegnato moltissime storie a fumetti, tra cui la già citata Modesty Blaise e la serie Zetari, pubblicata in Italia su L’Eternauta. Ha lavorato anche per le celeberrime 2000 AD, Judge Dredd Magazine e per Dan Dare.

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Co-autore de I Segugiè lo scrittore Leslie Alfred Joseph Lilley (1924 – 1998) che fu attivissimo nel campo del fumetto inglese e fu anche presidente della Federation of European Cartoonists’ Organization.

Entrambi autori molti stimati nel comicdom inglese, evidentemente meno noti qui in Italia, con The Seekers creano un giallo con caratteristiche tipicamente inglesi, quali abbondanti dosi di British-humour, personaggi poco inclini a manifestare i propri sentimenti (tipico degli Inglesi… ma non per questo poco interessanti o dinamici, anzi il fatto che parlino poco di se stessi stimola la curiosità durante la lettura) e una deliziosa “leggerezza” di fondo che diverte senza inficiare minimamente l’efficacia del giallo.

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L’ambientazione nell’Inghilterra dei favolosi anni 60, poi, contribuisce ad aumentare il fascino delle storie, che in questo volumetto sono tre, tutte appassionanti ed efficaci e con dei disegni bellissimi, seppure non godibili appieno a causa del piccolo formato del volume.

Dal retrocopertina:

“I Segugi sono i tre soci dell’agenzia omonima. La direttrice è Uma Frost, abile scaltra, non più giovanissima, che […] sovrintende alle imprese dei due soci più acerbi d’età. E’ la mente, insomma. Poi ci sono gli altri due: Jacob Benedick con mire e qualità di playboy […] e Susanne Dove, scienziata in minigonna, genio della meccanica applicata e progettatrice degli innumerevoli congegni di cui si serve il terzetto. Particolare degno di nota […]: i Segugi operano quasi esclusivamente a fine di lucro.”

Essenziale e importante riassuntino, visto che la prima storia comincia in media res, senza alcuna spiegazione riguardo i personaggi e le loro motivazioni, lasciando anzi spiazzato chi legge. Ma bastano poche pagine, anzi poche vignette, per entrare prepotentemente nell’azione ed essere completamente assorbiti/e nella lettura.

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Nel misterioso e riservatissimo Boneyard Club, nel quale alcuni uomini presenti (compresi i membri del complesso beat che suona per intrattenere i clienti) indossano maschere da teschio, viene ucciso un uomo di nome Tonker sotto gli occhi attoniti di Chrissy Coker. Ma oltre alla testimonianza di una sconvolta Chrissy non c’è nulla che dimostri che quell’uomo sia mai stato ucciso al Club, anzi sembra che quell’uomo non sia mai esistito! Chrissy, disperata e dubbiosa delle sue stesse facoltà mentali, si rivolge ai Segugi affinché facciano luce sul mistero. In una sarabanda di azione, trucchi ipertecnologici, tentati omicidi, cadaveri occultati e situazioni da brivido – il tutto sempre ricoperto da un sottile ed efficace strato di ottima ironia inglese – gli “agenti segugi” Jacob Benedick e Susanne Dove, coordinati con mano ferrea dall’anziana Una Frost, riusciranno a risolvere il mistero.

Come anche nelle altre due storie, punto di assoluta forza – oltre alla gradevolezza e scorrevolezza della storia scritta da Lilley– sono i bellissimi disegni di Burns (qui riprodotti da immagini dell’edizione inglese trovate in rete e alcuni dal volumetto in mio possesso) che sono estremamente dinamici, precisi e realistici in ogni componente: volti, corpi, oggetti, sfondi. Grandissima attenzione, e altro punto forte, è l’eccellente, gradevolissimo equilibrio di bianchi e neri e la scelta delle inquadrature: l’ottimo storytelling di Burns rende il fumetto un vero e proprio “film a vignette”, con luci ed ombre vivissime e quasi abbaglianti pur nel loro essere di carta!

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L’alternanza tra primi e primissimi piani, con anatomie dei volti e delle altri parti del corpo inquadrate sempre perfette, espressive e molto intense, e i piani lunghi dà a I Segugi un ritmo e un’alternanza che guidano totalmente chi legge verso un’immersione totale e piacevole.

Altra piacevole scoperta, anche se poco presente in queste tre storie, è la perizia con la quale Burns disegna le auto, dai celeberrimi cab londinesi alla Porsche parcheggiata davanti all’ “Agenzia”.
Auto a parte, Burns si trova perfettamente a suo agio sia con le ambientazioni metropolitane, come nelle prime due storie, che con ambientazioni di provincia e campagne nevose e gelide, come nella terza ed ultima storia. Non rinuncia mai all’accurata descrizione dei particolari, i quali sono sempre studiati in funzione della storia e “parlano” anch’essi seppure non sono in primo piano.

Le altre due storie presenti nel volume sono maggiormente sbilanciate in favore dell’azione, invece che del “mistero”: nella seconda storia i Segugi sono impegnati nel recupero di Giuseppe Salvatori, immigrato italiano e neo-ricco inseritosi nell’alta società londinese, che sparisce proprio il giorno delle sue nozze con Diana, la figlia del potente e ricco sir Julius. Questa è un’avventura decisamente sopra le righe in cui vengono disinvoltamente mischiate “questioni d’onore”, la Francia, una versione distopica (e un po’ buffa) della Legione Straniera, tentati omicidi, spogliarelliste e, anche qui, una buona dose di british-humour: si sorride, non si ride. La parte da leone la giocano l’agente Jacob Benedick e lo sventurato Salvatori. Anche qui il lieto fine – e il divertimento – sono assicurati.

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La terza e ultima storia è la migliore. Qui l’humour è decisamente più sottile (e meno presente) e a farla da padrone è la suspence e l’azione: la storia è più violenta e pericolosa delle due precedenti e ha una struttura maggiormente “gialla” cui fa da sfondo una brulla e squallida campagna gelata ricoperta di neve. Il detenuto Red Elibank– esecutore di una rapina da decine di migliaia di sterline – evaso dal carcere in cui scontava la pena, sua moglie, la signora Avis Elibank, disposta a tutto pur di ritrovarlo, i Segugi, qui con una Susanne scatenata e particolarmente sensuale,immersi nella neve fino al collo con l’ex banda di Red sempre pericolosamente alle calcagna… Una storia che si beve d’un fiato, contenente una notevole dose di thrilling e che per certe atmosfere e certi paesaggi mi ha davvero ricordato certe trame del mio adorato Kriminal. Disegni, ancora una volta, semplicemente superbi!

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Data la facile reperibilità del volumetto, ne consiglio senz’altro la lettura a chiunque voglia farsi affascinare da storie gialle in puro British-style, divertenti, ironiche, piene d’azione e disegnate con un tratto curatissimo che, nonostante la riduzione e il rimontaggio delle vignette, risulta splendido da vedere

 

Orlando Furioso

 

Tavola originale di John M. Burns da The SeekerImage may be NSFW.
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John_Burns_The_Seeker_original

 

John M. Burns

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John_M_Burns

 

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Marvel monkey

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Indestructible_Hulk_1

…la scimmia della Marvel mi è salita di nuovo sulla spalla…

Si parte per le vacanze. Non è che conto le ore che mancano: conto i minuti! Mai stato così stanco in vita mia.
Quindi anche il mio prescindibile blog va in vacanza.
Quindi questo è l’ultimo post.
E così mi lascio un po’ andare, senza troppi “filtri”.
Perché in realtà, anche se il sospetto già c’era, questo blog esiste mica per parlare di fumetti, macché! Lo uso per parlare di me!

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All_New_X-Men_1

Io sono fatto così: non mi accorgo dei “segni”.
Come alla fine degli Anni 80: tutto normale, trallallà, ascolto, tipo, i Faith no More, i No Means No, gli Husker Du, i Victims Family e un po’ del solito heavy metal, vado ai concerti punk, tutto come sempre.
Non mi accorgo che da qualche mese non mi perdo una sola puntata del programma radiofonico sulla Black Music, che canticchio continuamente le Supremes e mi pare la cosa più naturale del mondo dire “ok!” quando una band R’n’B torinese mi chiede di fare una “supplenza” ché il loro bassista è fuori sede.
E così un bel giorno mi ritrovo da Rockville a spendere in poche ore l’equivalente di tre stipendi in vinili di Soul, Funky e Rhythm’n’Blues… “improvvisamente” c’ero dentro fino al collo e non me ne ero manco accorto!

Dunque: qualche settimana fa, a pranzo col mio migliore amico, parlando di fumetti (ma va?…) a un certo punto mi è uscita questa frase: "Perché poi, lo sai, alla fin fine, se "nasci" coi supereroi, ti restano per sempre nel cuore!".
Sono stato profeta di me stesso?...
Sì.

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Indestructible_Hulk_1

Negli ultimissimi giorni ho letto e sto leggendo – legalmente – un bel po’ di albi Marvel, cosa che non facevo da qualche annetto, e ci sono dentro fino al collo: è tornata la scimmia, mi sogno i supereroi pure di notte!

Questo significa “girar le spalle” ad altro? Macché! Ho forse smesso di ascoltare heavy metal o punk quando mi sono innamorato della black music? No! Ho forse smesso di ascoltare i Genesis (con Peter Gabriel: solo quelli sono i Genesis!) quando ho scoperto il black metal? No! Ho mai smesso di adorare il Glam dei Seventies? Mai! Nella musica, come nei fumetti, sono un entusiasta, è una delle poche doti che mi riconosco, e non“mollo” quel che c’era “prima” solo perché scopro (ri-ri-scopro, in questo caso) una cosa nuova!

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Young_Avengers_1

I miei discorsi, seri e pacati, sul "Eh no, non sono il target adatto per la Marvel di oggi, queste nuove storie non le sento “mie”, questi personaggi sono troppo diversi dai "miei"; eh, evidentemente sono troppo vecchio per questo genere di cose…” sono andati bellamente a farsi benedire.
E’ bastata la lettura di una decina di albi per farmi salire sulla spalla la scimmia della Marvel. Mamma Marvel. Come ai vecchi tempi, tenuto conto la differenza di età (sul serio?…).
Un grande entusiasmo mi ha preso durante la lettura, non ho dovuto fare grossi sforzi (e nemmeno piccoli: non ho proprio dovuto fare sforzi!) per sentire di nuovo quel certo brividino sulla schiena e per ricominciare a sognare di volare o di avere la superforza.

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Thor_God_of_Thunder_14

Cos’è successo? Insoddisfazione per ciò che stavo/sto leggendo? Assolutamente no. Mai avuto tanta bella roba a disposizione da leggere, mai amato così tanto i manga che mensilmente aspetto con ansia; mai avuto a disposizione così tante ristampe succulente e amatissime (in ordina sparso: la Doom Patrol di Grant Morrison, i vari Omnibus Marvel, Shade The Changin Man di Peter Milligan, la Justice League International di Giffen-DeMatteis-Maguire, i volumoni di Kriminal di Magnus & Bunker ogni mese in edicola e altro); seguo con piacere Wonder Woman e Flash della DC Comics, e bisogna che prima o poi si parli anche un po’ della DC eh!… e poi ancora volumi unici o miniserie di Bao, Hikari, 001 ecc. ecc.
Insomma: non sono mai stato così felice di essere appassionato di fumetti e così sommerso di materiale di buona quando non ottima qualità.
Mancavano giusto i supereroi della Marvel, mio antico ed evidentemente mai sopito amore…

"Perché poi, lo sai, alla fin fine, se "nasci" coi supereroi, ti restano per sempre nel cuore!"

Appunto.

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Guardians_of_the_Galaxy_1

C’è il problemino della Continuity? Sì, sarebbe sciocco negarlo, non so granché di ciò che è successo nel Marvel Universe negli ultimi 7 – 8 anni, ma questo beato mare d’ignoranza non mi sta pesando più di tanto, perché uno scrittore decente dev’essere capace di farmi capire a grandi linee cosa è successo prima che io ricominciassi a leggere quelle storie, facendomi dei riassunti durante la storia stessa, ma senza farmi pesare che mi sta facendo dei riassunti… chiaro? No?
Facciamo un esempio. Vi ricordate le vecchie – meravigliose! – storie di supereroi, quando per far capire ai nuovi lettori/lettrici cos’era successo fino a quel momento, i personaggi facevano dialoghi del genere:

“Tu! Star-Lobster! Supercriminale col potere di trasformarti in un aragosta spaziale velenosa! Hai forse dimenticato che il tuo piano di distruggere la mia base segreta non potrà mai avverarsi perché col mio potere ipnotico, io – Stupendoman - ho imposto al tuo assistente, il malvagio Bronderus, di dirmi per filo e per segno i tuoi punti deboli e mi sono anche fatto dare la combinazione segreta per disinnescare la megabomba con la quale intendevi minacciare Stramboid-City!”

Ve li ricordate?
Ecco, dimenticateveli.
Pare che i moderni scrittori di fumetti abbiano acquisito quel po’ di tecnica necessaria ad evitare mattonate del genere (che comunque, intendiamoci, negli anni della Golden Age andavano comunque benissimo eh!) e siano ora in grado di far entrare piuttosto agevolmente il nuovo lettore/lettrice anche in media res senza doversi per forza procurare quei 15-20 anni di Continuity mancanti. E poi, per casi particolari e/o disperati, ci sono sempre i riassunti in Rete.

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Avengers_The_Enemy_within


Cosa sto leggendo?
Indestructible Hulk, Thor God of Thunder, Iron Man, Avengers, Incredibili Avengers, Guardians of the Galaxy, la miniserie Infinity e vari ed eventuali.
Sì: mi sta piacendo tutto.
No, non mi sto facendo condizionare dalle critiche che vedo in Rete né dalle lotte intestine tra “true believers” e neo-fans: oramai sono grande per queste cose. Aspetto con ansia e curiosità che Mjolnir venga impugnato dalla nuova Thor e vediamo questo Cap nero (volante?) come se la caverà. Nel frattempo negli Young Avengers c’è una coppia di adolescenti gay che mi interessa molto e un Loki bambino che fa tenerezza, ma mi sa che in fondo in fondo è bastardo come sempre se non di più…

Ora parto per le vacanze (ciao ciao!) ma quando torno ne riparliamo, eccome se ne riparliamo! Anzi: non vedo l’ora.

Orlando Furioso

 

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Infinity_1_cover

 

“It’s clobberin’ time!!!”

Rocky & Hudson

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Rocky_e_Hudson_cover
Rocky & Hudson
I Cowboy Gay

di Adao Iturrusgarai

vol. cartonato cm 21x15
104 pag. a colori


euro 14,95

Diàbolo Edizioni

Vedi quella scritta, sulla copertina in basso a sinistra, che recita“prologo di Liniers?
E’ bastata a farmi acquistare di corsa questo volume.
Sono ovviamente sempre interessato a fumetti a tematica lgbt, ma se il prologo è di Liniers, divento interessato a qualsiasi cosa, e se conosci già Liniers sai che non puoi aspettarti un prologo usuale (men che meno banale!).

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Ma basta parlare di Liniers [1] e veniamo a questo Rocky & Hudson I Cowboy Gay, dell’autore brasiliano Adao Iturrusgarai che, mi dicono le info in Rete, è uno dei più importanti cartoonist brasiliani (anche se vive in Argentina con moglie e figli/e) e, per quanto possa interessare, non è gay.

In realtà il suo non-essere gay diventa immediatamente interessante se si pensa che le strisce che compongono il volume risalgono ai primi Anni 90, quando scrivere di tematiche lgbt per un pubblico generalista, quindi al di fuori dello specifico target, era decisamente meno usuale di quanto possa eventualmente essere oggi. (Vaticanolandia esclusa, naturalmente, dove nei fumetti “di massa” non ci si pensa nemmeno ad inserire personaggi lgbt, a meno che non si tratti di “macchiette” così stereotipate da far venire la nausea).

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Ancor più interessante per un autore non-gay che fa fumetti su due cowboy gay all’inizio degli Anni 90 è che Iturrusgarai nel suo essere squisitamente “politicamente scorretto” mette alla berlina, più ancora che alcuni stereotipi del “mondo gay” [2], proprio l’omofobia in generale, ribaltando e rimandando al mittente – cioè agli/alle omofobi/e - quegli stessi stereotipi.
Illuminanti a tal proposito sono le ultime strisce del volume, in particolare l’ultima vignetta (che certamente non “spoilererò” qui).

Stereotipi che, beninteso, fanno molto ridere perché inseriti dall’autore brasiliano in un contesto umoristico paradossale che rende le strisce del volume divertentissime e molto efficaci.

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La risata arriva subito, grassa e crassa, a patto che si esca velocemente da qualsiasi ottica “politicamente corretta”: le strisce di Iturrusgarai sono deliziosamente eccessive, volgari (no bimbi/e, please), come già detto, paradossali: nel villaggio del Far West in cui sono ambientate le avventure dei due cowboy Rocky e Hudson– nomi che alludono all’attore gay Rock Hudson – quasi tutti e tutte le abitanti sono omosessuali e se non lo sono è perché non lo sanno ancora…

Una specie di villaggio-da-sogno meravigliosamente comico in cui le attività principali sono il bacio-gay, la proibizione del bacio-gay (proibizione che, come puoi immaginare, avrà uno scarso, scarsissimo successo), battaglie a sfondo sado-maso con gli Indiani locali, interventi per il cambio di sesso (anche questi ultimi avranno scarso successo), improvvisi e inquietanti – e comicissimi, naturalmente – cambi di orientamento sessuale, feste e parate gay.

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Scandalizzarsi è un attimo – specie per lettrici e lettori gay - se non si è abituate/i a ridere (anche) di se stesse/i e se, in generale, si fa fatica ad accettare il “politicamente scorretto” e se il vedere nero su bianco l’esasperazione dei propri stereotipi porta alla chiusura o a qualche altro tipo di timore.

Insomma, voglio dire: sappiamo bene, per esempio, che l’essere un maschio gay ed essere “portato” per l’uncinetto è uno stereotipo tritissimo e che non ha alcun valore concreto (sempre tenendo conto che ad occuparsi di uncinetto può essere chi vuole, indipendentemente da sesso e orientamento affettivo-sessuale, e non c’è niente di male); così come sappiamo che lo stereotipo della lesbica aggressiva e mascolina ha fatto il suo tempo (tenendo conto che ogni persona ha diritto ad essere “mascolina” o “femminile” o “così-così” come e quando gli/le pare, e anche qui non c’è niente di male); ma se un autore di fumetti usa certi stereotipi per ridere con noi, insieme a noi, non solo non c’è nulla di male, ma anzi la cosa non può che farci bene.

Inoltre, come detto poco sopra, la vera mazzata finale, la critica vera, l’autore la riserva agli omofobi, non certo ai/alle gay.

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Le strisce hanno una comicità fulminante ed immediata, a gag, e seppure alcune di esse sono legate sino a formare una piccola storia-nella-storia, restano comunque sempre leggibili a sé, con la caratteristica struttura a tre vignette, delle quali la prima introduce la gag, la seconda fa scattare la contraddizione e la terza suscita la risata. Occasionalmente Iturrusgarai usa strisce singole.

Il suo tratto, semplice ed estremamente cartoonesco, mi ha ricordato un po’ il primo Ralf Koenig, strepitoso e prolificissimo autore gay tedesco e famosissimo in tutto il mondo (un po’ meno qui a Vaticanolandia…), anche se le espressioni dei personaggi di Koenig sono impagabili e probabilmente inimitabili oltre che più “realistiche”, dove invece Iturrusgarai predilige schematicità e la semplicità del cartoon.

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Personalmente sono sempre molto attirato dai tratti semplici ed essenziali e uno dei motivi che mi hanno fatto acquistare volentieri Rocky & Hudson I Cowboy Gayè stato proprio questo segno così immediato, anzi di immediata comprensibilità, semplice nella sua efficacia e quei colori piatti e privi di sfumature, così allegri e deliziosamente fumettosi.

Volume consigliato a qualsiasi persona adulta che apprezzi le strisce umoristiche e le tematiche lgbt affrontate con una certa leggerezza e un delizioso gusto per l’eccesso e qualche apprezzabilissima “volgarità gratuita”. No moralisti/e, no bigotti/e, grazie.
Buon divertimento!

Orlando Furioso

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Note:

[1]…però fatti un favore: procurati i 5 volumi di Macanudo editi in Italia da Double Shot, specie ora che ti fa anche un bello sconto!

[2] Non mi piacciano termini come “mondo gay”, “ambiente gay” et similia… ma siccome la mia conoscenza della lingua italiana è carente e non sono portato per l’invenzione di neologismi uso questi termini orridi giusto per “capire di cosa stiamo parlando”…

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Vincent

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Vincent

di Barbara Stok

vol. brossurato, colori,
144 pag.

euro 15


Bao Publishing

 

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“Se quello che fai ti fa vedere l’eternità, allora la tua esistenza ha avuto un senso.” - Vincent, di Barbara Stok

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Il fumetto viene spesso associato al cinema, al punto che qualcuno prendendo spunto dal termine “settima arte” per definire il cinema, ha coniato l’altrettanto orrendo“nona arte” (che in quanto a orrore e senso di colpa mal digerito fa il paio con “graphic novel”, e non m’interessa se quest’ultima definizione l’ha inventata uno dei più grandi geni del FUMETTO).
Il fumetto ha anche tratto, dal cinema, una certa fraseologia tecnica, come ad esempio quella che riguarda i piani di inquadratura e anche il concetto stesso di inquadratura. [1]

Il fumetto viene accostato/associato anche ad altre forme di comunicazione e/o intrattenimento, come ad esempio i videogiochi.
Non poche, infine, sono le commistioni tra fumetto e musica: biografie di musicisti/e, storie di band, interazioni tra fumettisti/e e musicisti/e ecc.

Fumetto e letteratura, poi, hanno interagito numerosissime volte e continuano a farlo, gli esempi sono talmente numerosi da essere difficilmente quantificabili.

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Ma l’accostamento tra fumetto e arte non è poi così frequente, seppure non mancano artisti famosi tra i protagonisti di storie a fumetti oppure ambientazioni nel mondo dell’arte (ad esempio: la miniserie Jan Dix della Bonelli Editore, conclusasi nel 2010; o ancora alcune pregevoli realizzazioni a fumetti della giovane casa editrice Kleiner Flug, italianissima a dispetto del nome).

Il bellissimo volume di cui voglio parlare – Vincent, di Barbara Stok - non soffre di alcun senso di colpa nei confronti dell’arte “seria”. Per lo meno questa è l’impressione che mi ha dato e tutto il volume, dalla scelta del soggetto e del periodo allo stile e al linguaggio usato, conferma questa opinione. E’ uno splendido fumetto, non ha bisogno d’altro né di altra definizione.

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Non ci sono scorciatoie per sconfiggere la (propria) ignoranza; google non sostituisce la lettura di libri e articoli, la visione di film, l’approccio con la realtà e la conseguente riflessione. Per sapere bisogna faticare, leggere, studiare, pensare.
Come mi fece notare in modo molto maleducato qualche tempo fa un tale sotto pseudonimo, l’ignoranza è una scelta; s’intenda per chi vive qui e oggi ossia con le molteplici possibilità di istruzione e auto-istruzione. Quel tale fu maleducato, supponente, offensivo e antipatico, però aveva ragione.

Ecco, tutta questa pappardella per dire, in modo contraddittorio [3] che questo magnifico e commovente volume mi ha “insegnato” molto su Van Gogh; è stata una – a questo punto necessaria – integrazione su quanto sapevo e pensavo di lui, pittore che ho sempre amato.

Il fumetto di Barbara Stok non sostituisce, ovviamente, la personale e diretta visione dei quadri di Van Gogh, eppure riesce a penetrarne l’anima in modo profondo e sincero e, ciò che è più importante, riesce a comunicare tutto questo a chi legge.

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Vincent racconta la vita di Van Gogh in quel breve e intensissimo periodo che va dal suo trasferimento ad Arles nel 1888 fino alla sua morte, avvenuta in modo tragico nel 1890, alla sola età di 37 anni. A questo proposito: non ci sono date nel fumetto, tranne che nell’ultima, triste vignetta; quest’assenza di date in un racconto non ambientato nella contemporaneità, fa sì che la storia dia una sensazione di fluttuazione in un tempo/non-tempo…

La base da cui parte il racconto – e che lo percorrerà tutto - è il rapporto che lega i due fratelli Van Gogh: Theoè l’affettuoso mecenate e primo ammiratore e sostenitore dell’opera del fratello pittore, Vincent, il quale è dotato di una straordinaria, quasi sovrumana sensibilità artistica, decisamente avanti sul proprio tempo.
Theo, anch’egli uomo sensibile e, come già detto, affettuoso, è la realtà concreta, i piedi per terra, risolutore dei problemi materiali del fratello, è ottimista seppur preoccupato perché cosciente della fragilità del fratello artista.

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Gli ultimi due anni di vita del pittore olandese sono quelli nei quali produsse i suoi più splendidi capolavori e sono anche quelli nei quali la sua sofferenza personale e la frustrazione raggiunsero apici umanamente insopportabili. Sono dunque, parlandone da un punto di vista freddamente razionale, gli anni più interessanti da essere raccontati e per noi posteri, che non possiamo percepire il dolore dell’uomo Van Gogh, il centro di tutto restano i meravigliosi quadri dell’artista Vincent Van Gogh.

Ma, e qui sta l’efficacia dell’opera di Barbara Stok, Vincent riesce a coniugare vita, profondità dell’essere e arte, in modo tanto semplice quanto profondo e ci mostra l’uomo insieme all’artista.

E’ interessante la visione che dei suoi quadri ne dà col linguaggio del fumetto l’autrice olandese: coglie l’essenza dell’arte di Van Gogh e la traspone in un modo e in uno stile personalissimi, in una storia a fumetti perfettamente conclusa e funzionante in sé.

La raffigurazione in vignette dei quadri o di porzioni di essi, si inserisce nella storia/biografia dell’artista, ma allo steso tempo fa “storia a se’” in quanto in quelle vignette è tangibile la sensazione del tempo che si ferma e si “fissa” in un istante eterno e al di fuori della storia (a fumetti) e della Storia.

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Il tipo di linguaggio e di stilemi usati dall’autrice può ovviamente piacere o meno [a me è piaciuto moltissimo, se non si fosse capito], ma è obiettivamente moltointeressante l’approccio personale usato, la scelta del tipo di linea, di segno e di colore e soprattutto l’intersecarsi, senza alcun tipo di discrasia, della vita di Van Gogh con la raffigurazione dei suoi quadri i quali appaiono, come già detto, “fuori dal tempo”.

Molto umane, invece, sono le emozioni per lo più drammatiche vissute da Vincent Van Gogh nei suoi ultimi due anni di vita e descritte così magistralmente da Barbara Stok: l’insorgere delle “crisi” (di tipo epilettico?) che lo portarono a lunghi momenti di confusione mentale e autolesionismo con conseguente ricovero in casa di cura, furono la tragica apoteosi di una breve vita fatta di incredibili lampi di genialità artistica coronati da una sterminata produzione di quadri e disegni e di perenne, infinita frustrazione e solitudine.
Il suo ossessivo rapporto con Paul Gauguin, il suo sogno di dar vita a un’associazione di artisti se non a una vera e propria “casa di artisti”, il suo desiderio di un’arte pura e sincera, il suo profondo anelito d’infinito… tutto ciò si sgretolò nella tragedia della sua “malattia mentale” (che nessuno riuscì mai a diagnosticare in modo univoco). Van Gogh non potè mai sapere di quanta fama e gloria postume godette.

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Non bisogna pensare però che l’intero volume sia zeppo solo di tragedia, proprio come nessuna vita è mai interamente e completamente tragica (o almeno così ci piace sperare…) e proprio come Van Gogh stesso dice al fratello Theo:

“Vedo il futuro pieno di problemi, ma non sono triste. Ho fortuna e sfortuna, non solo sfortuna. Sarà quel che sarà.”

Nei suoi ultimi due anni di vita Van Gogh ha vissuto anche (brevi) momenti di serenità e di ineffabile felicità, che d’altronde sono due stati della mente che non possiamo sperare siano perenni: si tratta, come per tutti/e, solo di momenti fugaci e di obiettivi che ci permettono di andare avanti, ma che non si raggiungono mai, se non appunto per brevi istanti.

Certe parti di Vincent mi hanno commosso fino alle lacrime, altre mi hanno fatto sorridere, ho riletto il volume tre volte di seguito e soprattutto mi sento più ricco di quanto non fossi prima di leggerlo.
Dire che lo consiglio spassionatamente è un blando eufemismo.

“Le stelle mi fanno venire in mente i puntini neri che indicano le città e i paesi su una carta geografica. […] Come prendiamo il treno per andare a Tarascon o Rouen, così prendiamo la morte per andare su una stella.”

 

Orlando Furioso

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Note:

[1] Il cinema ha ricambiato la cortesia definendo “fumettoni” i film brutti. Ah-ha!

[2]…al punto, appunto, che ci si è sentiti in dovere di inventare neologismi quali “graphic novel” o il più casareccio“romanzo disegnato”, quando non l’altisonante “letteratura disegnata” (ellamadònna!) o infine uno degli slogan più presuntuosi che abbia mai sentito – soprattutto per l’erbafascismo e la presuntuosa prosopopea che comporta – ossia il terrificante“porta rispetto è arte il fumetto”. Brrrr!!!!

[3]…le cose più interessanti non sono forse anche le più contraddittorie?…

Ultimate Comics - New Spider-Man

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New_Spider-Man_cover13
Ultimate Comics:
New Spider-Man


nn. 10 – 14, pubblicati in Italia
da Gennaio a Giugno 2014,
bimestrale

Brian Michael Bendis, testi
Sara Pichelli, disegni nn. 10,11
David Marquez, disegni nn. 12 - 14

albi spillati con cover rigida
48 pag., colori

euro 3 cad.
(n. 11 euro 3,30 per 64 pag.)

Panini Comics
Questa è un’autocritica pubblica.
Circa 14 anni fa arrivava in Italia l’Ultimate Universe, ossia una versione rivisitata & corretta del Marvel Universe ad uso e consumo di lettori/lettrici più giovani di quelli abituali, o presunti tali, e per, diciamo così, ricominciare a gestire “da zero” un Universo narrativo un po’ ingolfato e spesso congestionato da decenni di continuity, di contraddizioni, di mondi paralleli, dimensioni alternative, origini oramai datatissime e soprattutto scarti temporali apparentemente incongruenti [1]+[2].


Quindi, per dirla in due parole, la Marvel si inventa un nuovo Universo narrativo mantenendo gli stessi personaggi, ma ambientando il tutto ai nostri giorni, situando le origini dei personaggi nella contemporaneità. Nasce così l’Ultimate Universe, nel quale il giovanissimo Peter Parker diventa sì Spider-Man, ma non in una scuola nerd dell’inizio degli Anni 60, ma qui e oggi (o meglio, nel 2000, anno di uscita del primo numero di Ultimate Spider-Man): ciò significa che ci saranno cellulari, computer di ultima generazione, le auto non sembreranno uscite da un museo di antichità e le persone vestiranno come vestiamo noi. (…beh, trattandosi di americani il “vestire come noi” va inteso in un’accezione non esattamente letterale…).
Zia May, l’adorabile vecchietta che cresce Peter Parker, nell’Universo Ultimate diventa un’ancor giovane signora moderna e avvezza alle nuove tecnologie, che per esempio cerca su gooogle consigli su come affrontare le problematiche adolescenziali.

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JJJameson_Pichelli1


Queste sono le sciocchezze che scrivevo 13 anni fa al proposito, ma non occorre che leggiate tutto, è scritto in stile terza-elementare e pressoché senza  argomentazioni solide. Riassumo in poche righe:

“Hanno tradito il mioUomo Ragno!
[non lo leggevo da anni, l’Uomo Ragno…]
Assurdo! Prendono i miei personaggi e li stravolgono! Ah ha, zio Ben con la coda di cavallo non si può vedere! Tradimento!” […perché invece la Donna Invisibile e Wasp hanno la stessa pettinatura degli Anni 60, no?]
E’ tutta una manovra commerciale!
[perché invece normalmente i fumetti vengono fatti per risolvere la fame nel mondo, vero?]
Tradimento! Vogliono accontentare i ragazzini!
[Orrore! le case editrici non devono attirare giovani lettori/lettrici, macché! Così quando moriremo noi Veri Credenti, le case editrici chiuderanno perché avranno cessato lo scopo della loro esistenza, che era appunto intrattenere noi vecchiacci brontoloni…].

Tra l’altro quest’ultimo punto viene confermato e sintetizzato perfettamente da Cristiano Grassi, editor di Panini Comics/Marvel Italia, sul n. 12 di New Ultimate Spider-Man n. 12:
“L’idea di base non era certo originale e lo scopo della sua creazione [dell’Ultimate Universe] era il classico “cerchiamo giovani lettori che non si trovino di fronte a un carico pluridecennale di continuity sulle spalle”.”
Comunque, in quel Maggio 2001 ero stizzito, semplicemente stizzito. Forse perché la Marvel non mi aveva consultato preventivamente prima di utilizzare i suoi personaggi come meglio credeva… [3]


Quanto scritto finora non significa che ogni fumetto che non mi piacerà oggi mi piacerà tra una tredicina d’anni, né tantomeno che tutto ciò che ha fatto Mamma Marvel con l’Ultimate Universe sia da annoverare tra i capolavori del fumetto supereroistico.
Comunque, alla fine, anzi all’inizio, abbandonai l’Ultimate Universe al suo destino e non me ne preoccupai più. Mantenendo però ben saldi i miei pregiudizi, eh sì, a quelli non si rinuncia facilmente eh! [4]

Quanto troverete scritto d’ora in avanti e fino alla fine della pagina sarà, invece, un giudizio più che positivo ad un breve ciclo di storie dell’Ultimate Spider-Man[5] che ho appena terminato di leggere con grandissimo piacere ed emozione.
Mettete in conto anche l’entusiasmo tipico dei neo-ri-convertiti e dei figlioli prodighi e bilanciate il tutto con un po’ di sano buon senso (il vostro, naturalmente!). Ma m’è proprio piaciuto tanto.

Da qualche tempo nell’Ultimate Universe non è più Peter Parker a indossare il costume di Spider-Man, ma un giovanissimo ragazzo afroamericano di nome Miles Morales. Un ragazzino che vive in famiglia con mamma e papà, va a scuola, si trastulla col cellulare, ha un “migliore amico inseparabile” [che si chiama Ganke ed è adorabile: è senz’altro il mio personaggio preferito] e affronta supercriminali che soltanto a vederli da lontano farebbero letteralmente svenire dal terrore la persona più grande e grossa, corazzata e cintura nera di ju-jitsu tra noi… Ha superpoteri, certo, ma non è né un dio nordico né possiede armature supercorazzate o campi di forza impenetrabili. Questo rende le storie ancora più interessanti: come farà quel ragazzino, persino esile nella sua giovinezza, a sconfiggere quel mostruoso, mostruoso e superforte e gigantesco Venom?


A mio parere chi legge storie dell’Ultimate Universe può giocare con queste storie in molti modi, all’interno però di due, diciamo così, "macro-categorie": 1. se conosci già il Marvel Universe; 2. se non lo conosci e dunque il tuo approccio si basa unicamente sulla lettura degli albi.
Entrambe le categorie offrono spunti infiniti, come ogni storia a fumetti dovrebbe comunque fare, ma è ovvio che la prima ne offre uno in più, ossia quello di confrontare i personaggi dell'Ultimate Universe con quelli del Marvel Universe"regolare". Quest'ultima modalità di gioco, però, può anche avere risvolti negativi, proprio come successe a me - come dicevo poc'anzi - tredici anni fa, che giudicai Ultimate Spider-Man basandomi esclusivamente sul confronto col "vero"Spider-Man (concetto di base errato: entrambi sono veri; anzi di più: ogni Spider-Man creato da Marvelè vero e tanti, e tanto veri, sono gli Spider-Man"di" ogni lettrice/lettore).


Nonostante non abbia cominciato a leggere questa nuova serie dal n. 1 non ho avuto nessuna difficoltà di comprensione (né ho consultato wiki o altro prima di leggere): sono entrato dritto nella storia e ho continuato a leggere. Ha provveduto Brian Michael Bendis a riassumermi la situazione infilando nei dialoghi sufficienti – e non troppo invasivi – riferimenti atti alla comprensione del senso di ciò che accade. Ciò non significa che ogni numero faccia storia a sé o sia autoconclusivo, non è così in quanto i cicli – le run– si dipanano per più numeri e per goderseli al meglio è ovviamente consigliabile partire dall’inizio del ciclo. 
Eppure pur non avendo potuto cominciare dall’inizio la lettura di questa serie, sono riuscito a gustarmi ugualmente la storia (sia quella generale, che le storie in itinere contenute in ogni numero).


E ora un caotico – al solito... - riassuntino di questa saga.
Il primo numero dei cinque da me letti – il n. 10 - comincia con la breve run La Guerra di Venom, all’inizio della quale trovo Miles Morales direttamente alle prese con il disperato tentativo di proteggere la sua identità segreta. Nel frattempo la spregiudicata (e antipaticissima) giornalista free-lance Betty Brant crede di aver scoperto proprio l’identità segreta di questo nuovo Spider-Man e intende vendere a carissimo prezzo la notizia. Propone “l’affare” al Daily Bugle diretto, anche in questo Universo, da un baffuto James Jonah Jameson. Senza saperlo né tantomeno volerlo Betty Brant scatena forze potenti e letali che vogliono anch’esse venire a conoscenza dell’identità segreta di Spider-Man... Soprattutto uno spaventoso nemico del defunto Spider-Manè molto interessato all’identità segreta del nuovo Arrampicamuri. Ne nascerà un grosso, grossissimo guaio dal quale non tutti/e ne usciranno vivi/e.
Con la conclusione della run nel n. 11, assistiamo a un evento così drammatico che causerà a Miles Morales un indicibile dolore e la decisione di non indossare mai più i panni di Spider-Man.


Nel numero 12 - ambientato esattamente un anno dopo la drammatica decisione presa da Miles – ha inizio il ciclo dal significativo titolo di Spider-Man Addio.
Miles Morales ha tenuto fede alla sua promessa: non ha più indossato il costume, con gran dispiacere del suo migliore amico Ganke, che non solo non solo è a conoscenza del segreto di Miles, ma ne è (era) anche un aiutante, seppure “di contorno” e nutre, ricambiato, un profondissimo affetto (e ammirazione) per il giovane Miles: devo ammettere che più d’una volta, senza alcuna malizia, ho pensato che tra i due ci fosse del tenero.

Il “ritiro” di Miles– durato un anno nel tempo del fumetto – viene però messo in discussione da una serie di cataclismatici avvenimenti, provocati tra gli altri dalle versioni Ultimate di Cloak e Dagger, da Bombshell (ragazzina con devastanti poteri esplosivi) e da Gwen Stacy, ex fidanzata del defunto, ex Spider-Man, Peter Parker.

Neanche a dirlo, e non credo di fare alcuno spoiler dicendolo, il giovane Miles tornerà alle sue “antiche” responsabilità supereroistiche cominciando col perseguire la diabolica Roxxon,  azienda marcia e corrotta, fonte della maggior parte dei problemi che affliggono il nostro eroe, e non solo. Comparsate di Zia May (scordatevi la versione “regolare”: questa è una Zia May davvero, davvero diversa!) e, ben più di una comparsata, di Spider-Woman, che non è proprio una “persona”, ma…
E ora attendo di leggere il seguito della storia...


Mal di testa?
Non è colpa della Marvel o delle storie dell’Uomo Ragno dell’Ultimate Universe, ma dei miei “problematici” riassunti, “ingabbiati” e ingessati dalla mia stessa volontà di spoilerare il meno possibile per non rovinare a nessuno il gusto di un’eventuale – e consigliatissima – lettura in proprio.
Anzi, direi che le storie di cui sto parlando difficilmente potrebbero provocare un qualche mal di testa in quanto lo scrittore Brian Michael Bendis riesce con facilità e una certa leggerezza a raccontare azione, dramma e teen-story miscelandone discretamente bene i componenti e toccando con delicatezza e sensibilità i “tasti giusti” per il coinvolgimento emotivo di chi legge. Il risultato, per quel che mi riguarda giudicando questi brevi cicli, è coinvolgente (personaggi vivi), abbastanza emozionante (action, supercalzamaglie volanti che si danno un sacco di botte), contiene anche situazioni commoventi (situazioni e dialoghi drammatici non banali e toccanti); è insomma a mio giudizio una buona “via di mezzo” tra quelle storie iper-depressive e cupe che tanto abbiamo amato (e ancora amiamo) e una certa qual “leggerezza-pop” che deve essere una caratteristica dei super-eroi.

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Nei nn. 10 e 11 ai disegni troviamo Sara Pichelli, disegnatrice eccellente che apprezzo tantissimo: trovo il suo tratto dinamico e morbido al tempo stesso, perfettamente fumettistico in ogni sua componente (dalle anatomie allo storytelling generale alle caratterizzazioni) e inoltre sfugge a quegli stereotipi così abusati quando si tratta di disegnare personaggi afro-americani e personaggi giovanissimi. Trovo sia una maestra nel trasfondere le emozioni dei personaggi non solo nei loro volti, per i quali ha un vero talento!, ma in generale nelle loro posture fisiche (così è anche nella realtà: esprimiamo il nostro essere, la nostra interiorità, soprattutto col corpo, più ancora che col viso). Le poche figure a corredo di questo scritto non possono assolutamente dare neppure una vaga idea della bravura di Pichelli, quindi consiglio – cosa che farò anch’io – di cercare altri lavori della bravissima disegnatrice marchigiana e di seguirla con attenzione in futuro.

La bravissima Sara Pichelli col n. 12 cede le matite al collega David Marquez, disegnatore senz’altro in gamba, ma a mio opinabilissimo giudizio non paragonabile alla bravissima disegnatrice marchigiana. Come disegnatore mi dà l’impressione di tendere a una certa (eccessiva) stilizzazione mi sembra usare molto certi stereotipi grafici. Comunque, al di là del mio personalissimo gusto, Marquez se la cava più che bene e il suo grado di leggibilità resta ottimo.


Prenderò senz’altro i prossimi numeri: sono curioso di vedere se un ex-detrattore per partito preso dell’Universo Ultimate [6] riesce, invece, a diventarne un ammiratore.
Infine: serie consigliata a chi volesse cominciare a leggere una serie di supereroi anche senza avere grosse basi “storiche” e, soprattutto, senza farsi troppi problemi.

Note:

[1] Ad esempio: se rispettassimo, o meglio “incrociassimo” il tempo reale e quello narrativo dell’Universo Marvel“classico” (chiamato 616), l’Uomo Ragno avrebbe circa 70 anni; Reed Richards dei Fantastici Quattro ne avrebbe un’ottantina; idem per Iron Man ecc. ecc.

[2] C’è però da precisare che, Continuity o no, reboot o meno, una bella storia o un bel ciclo di storie, restano  belli sempre e nessuno ce li può togliere. Questo per dire che se leggo una bella storia dei Fantastici Quattro, non sto a pensare “ah, no, non è possibile, a quest’ora Mr Fantastic dovrebbe avere 80 anni e la Donna Invisibile pure lei!”, perché se accetto senza banfare che un signore si allunghi all’inverosimile e una signora possa rendersi invisibile e circondarsi di campi di forza impenetrabili, significa che il patto di sospensione dell’incredulità tra me e la Marvelè ancora valido e funziona. E funziona pure bene, direi!

[3] Peraltro la Marvel non è nuova all’invenzione di nuovi universi narrativi: ad esempio, solo pochissimi anni prima, aveva inventato il Marvel 2099 (ambientato appunto in un ipotetico 2099) o ancora il New Universe (universo narrativo ambientato nella nostra Terra “reale”, nella quale cioè non esistono – ancora - i supereroi). Nessuno di questi universi non mi aveva minimamente stizzito, anzi avevo abbastanza apprezzato, seppure la Marvel nemmeno in casi si era degnata di consultarmi preventivamente…

[4]…tranne rinunciarci o far finta di niente per gli Ultimates (la versione Ultimate dei Vendicatori) di cui invece ho comprato, letto e molto apprezzato il ciclo di storie scritto da Mark Millar… firulì firulà… *due pesi due misure* … trallallà

[5] La wiki-pagina che linko non l’ho letta, visto che intendo procurarmi alcuni albi precedenti a quelli che ho appena letto, e non volevo rovinarmi troppo il gusto della lettura…

[6] Per non far la parte del fanatico, devo comunque dire che dell’Ultimate Spider-Man del 2000 non riuscivo proprio ad apprezzare il disegnatore: Mark Bagley, splendida persona (ci chiacchierai un minutino durante una lontana edizione di Torino Comics) che però fa parte della mia personalissima lista di disegnatori ostici. Oltre a ciò lessi, all’epoca, un paio di numeri di Ultimate X-Men e di Ultimate Fantastic Four e non mi piacquero granché…

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Superior Spider-Man

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Superior Spider-Man

(nn. 1 – 11, in corso)

di Dan Slott, testi
Christos Gage, testi
Camuncoli, Checchetto,
Ramos e Stegman, disegni

mensile

albi spillati, 80 pag. colore

Euro 3,30 caduno

Panini Comics

.


Questo scritto è, per chi non ha mai letto Superior Spider-Man, un gigantesco SPOILER, perché per quanto io per primo non ami "rovinarmi le letture" con spoiler preventivi, non è materialmente possibile alcun tipo di discorso su questo fumetto senza partire da un grosso spoiler che è base e fondamento del fumetto stesso, senza il quale non mi sarebbe forse venuto in mente né di leggere né di parlare di Superior Spider-Man.

"Sono venuto a dire addio alla mia vecchia vita.
Una vita sprecata in malvagità e fallimenti...
...in cui la sola vittoria è stata ingannare la morte...
...scambiandomi di posto con il mio peggiore nemico."

Dunque Peter Parker, l’uomo sotto il costume dell'Uomo Ragno / Spider-Man sin dal 1962, da quando cioè lo crearono Stan Lee e Steve Ditko, è morto.

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Uno Spider-Man volteggia ancora tra i cieli della New York dell'Universo Marvel sfidando la forza di gravità a colpi di ragnatela ipertecnologica, ma sotto quel costume, diventato con gli anni sempre più simbolico e iconico nel nostro mondo (quello non-fatto di carta), non c'è più Peter Parker.
Tornerà, questo è certo: in quel meraviglioso Universo fittizio quasi nessun morto è destinato a rimanere tale per molto tempo (gli esempi dei “ritornati dall’aldilà” sono numerosi: Capitan America, Thor, Johnny Storm dei Fantastici Quattro e altri/e ancora).
Una cosa bella del raccontare storie è quella di poter giocare a essere dio, anzi è esserlo "realmente" per quei personaggi di carta, giocando con la (loro) vita e la (loro) morte senza dover rendere conto a nessuno (se non alla dirigenza della casa editrice e alle vendite, s'intende).

Il Dio di Terra 616– lo scrittore Dan Slott - ha deciso che sotto quel costume non ci sia più il buon, vecchio Peter Parker.
O meglio: c'è Peter Parker, ma non è esattamente lo stesso Frendly Neighborhood Spider-Man cui tante vecchie storie ci hanno abituato.
Il fisico è quello di Peter Parker, ma la mente è quella del suo più letale nemico: il malvagio dottor Otto Gunther Octavius, meglio conosciuto come Dottor Octopus (Doc Ock per gli amici, se mai ne avesse avuti)!

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In un arco narrativo di Amazing Spider-Man che non ho letto, culminato con il n. 700, in punto di morte il vecchio Doc Ock riesce a ingannare la morte stessa trasferendo la sua mente dentro il corpo di Peter Parker, e la mente di Peter nel vecchio corpo morente del supercriminale. 
Il risultato è uno Spider-Man super-malvagio che si appresta a conquistare il mondo?
(Per ora) no, perché durante il “trasferimento di menti”, dentro quella di Doc Ockè rimasta un po’ della “coscienza” e tutti i ricordi del buon vecchio Parker!
Otto Octavius si considera uno dei più grandi geni del mondo, se non il più grande in assoluto, e il suo immenso ego unito a quel pezzo di coscienza e ai ricordi del Parker originale lo porta a desiderare fortemente di eccellere persino nel super-eroismo, di dimostrare quanto lui, Otto, sia immensamente superiore al vecchio Uomo Ragno – Superior Spider-Man, appunto.

Forse l’idea in sé forse non è originalissima, ma qui non siamo esattamente in territorio horror (“corpo posseduto”) né in quello puramente paranormale (“scambio di cervelli”) né tantomeno nel campo della “doppia personalità”: in realtà l’idea dello scrittore Dan Slott sottende tutte e tre queste componenti, ma le trascende per qualcosa di più originale, almeno nel campo dei fumetti mainstream.

Se, immagino, nel corso dei decenni ci sono stati casi di supereroi “posseduti” o nei quali “emergeva il lato oscuro” (si pensi alla kryptonite rossa di Superman o al suo sdoppiamento in due “entità elettriche”, o ancora al binomio BannerHulk, giusto per fare un paio di esempi su supereroi arci noti), non ricordo altri casi in cui si siano costruiti cicli di storie, con tanto di cambio di titolo della testata generale, basati sul presupposto di Slott… Tra l’altro si parla di una delle testate-simbolo del Marvel Universe, non di un titolo sull’orlo della chiusura affidato a un geniaccio inglese cui viene data la licenza di stravolgere tutto come e quanto vuole.

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Intermezzo

Credo fosse la prima metà degli Anni 70 e in tv (ancora in b/n) c'era una trasmissione, forse settimanale, sui fumetti. Durò poco, se ben ricordo. Era presentata da un signore argentino (un fumettista anch'egli?) con un bel paio di baffoni che disegnava su una lavagna composta da grossi fogli di carta. Era un signore affabile che, lo si capiva, amava moltissimo i fumetti: ne parlava in modo sempre appassionato, certamente semplificando le cose affinché anche i più piccoli potessero capire. Pareva, insomma, un papà giovane o uno zio bonario.


Tranne, lo ricordo perfettamente, nella puntata in cui si parlò dei supereroi...
Con l'espressione accigliata, anzi proprio aggrottata, parlò con vero e proprio disprezzo di queste creature super-umane, tutte statunitensi, che invece di dedicarsi a salvare il mondo da fame e guerre, vivevano avventure impossibili, violente e che non portavano da nessuna parte e nulla facevano per la gente.
Per me, ragazzino che "vivevo" per/di quei fumetti, fu un colpo duro e odiai quel signore che non aveva capito quanto potessero essere belle quelle avventure "impossibili" e soprattutto nulla sapeva di quanto fossero importanti per me, adolescente ancora terrorizzato dalla vita.

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Ci volle qualche anno perché ripensassi, sempre con un po’ di fastidio e un pizzico di antipatia, a quella trasmissione e capissi che "l'analisi" sommaria fatta da quel disegnatore argentino era tutto sommato comprensibile perché, proprio in quel periodo, l'Argentina viveva uno dei suoi momenti più terribili con una dittatura sanguinaria probabilmente appoggiata dagli Stati Uniti.


I supereroi sono sempre stati un potente simbolo: come lo erano per me, così - ma con segno opposto - lo erano per quell'arrabbiato disegnatore argentino; per me erano un simbolo che ancora non comprendevo appieno, per lui forse erano uno dei simboli dell'oppressione.

Nessuno, però, spiegò a quel signore che anche se i supereroi avessero vissuto sulla carta avventure nelle quali sconfiggevano la fame nel mondo o mettevano fine a tutte le guerre, tutto ciò sarebbe avvenuto solamente... sulla carta! Nella realtà nulla sarebbe cambiato.

Fine intermezzo

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Ecco, le storie contenute negli albi di Superior Spider-Man e il mio frammentario ricordo delk “vecchio” Uomo Ragno, mi hanno ricordato un po’ questa (falsa) dicotomia: l’avventura per l’avventura col Peter Parker ancora possessore di una certa qual ingenuità, scevro da altro che non fossero i suoi propri problemi personali (talvolta molto gravi) e un generico, per quanto fortissimo, desiderio di “proteggere” i deboli, derivato in gran parte dai suoi sensi di colpa e dal suo senso di responsabilità (“Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”); il tentativo di “protezione globale”, e quindi per traslazione il tentativo di “salvare il mondo”, anche in un’ottica diciamo così “politica”, a qualsiasi costo e senza moralismi di alcun tipo, da parte del(l’ex?…) malvagio Dottor Octopus, ora Superior Spider-Man.
Un tipo di “realismo (anche) politico” oltre che ovviamente avventuroso che non credo sia comunissimo nelle testate dedicate all’Arrampicamuri[1].

Lettura forzata dite?… Può darsi, anzi senz’altro; ma non riesco a vedere in quale altro modo un eroe di carta potrebbe salvare un mondo di carta, se non con una spietatezza e azioni degne della più gelida “realpolitik”

Oltre che parzialmente “politico” questo nuovo Superior Spider-Manè più mitologico della sua versione precedente.

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Superior Spider-Manè mitologico in un senso non propriamente "moderno"; non lo associo a nuove divinità create nel XX secolo, ma a miti antichi, sogni e desideri vecchi quanto l'umanità stessa.
Superior Spider-Man, e lo dichiara di propria bocca nel n. 1 [prima vignetta della prima pagina], ha sconfitto la morte, ha realizzato ciò che ogni creatura umana sogna sin dalla notte dei tempi, che non è né il volo né l'invulnerabilità né la telecinesi o la facoltà di tramutare in oro tutto ciò che viene toccato, no: Superior Spider-Man, cioè chi ne occupa il corpo, è l'unica creatura riuscita a tornare indietro nel tempo (essere di nuovo giovane, con un corpo giovane e bello), ma con la saggezza, la memoria e l'esperienza accumulata in una vita più antica.
Anzi, con l'esperienza e la saggezza di ben due vite: quella di Otto Octavius, una delle menti più brillanti del mondo, e quella di Peter Parker, uno degli eroi più coraggiosi, intrepidi e dal cuore più puro che ci siano (per quanto sia possibile avere il "cuore puro" oggi, seppure in un universo narrativo fittizio...).
Uno dei sogni più grandi - destinato senza alcun dubbio a restare tale - si fa realtà in un fumetto e colpisce come uno schiaffo.
"Se solo potessi tornare indietro a quand'ero giovane... ma con la testa di adesso!".

Ecco quello che è successo.

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Pare che un po’ di gente si sia risentita, alcune persona in maniera esagerata, per quella che io trovo invece un’idea geniale e coraggiosa dello scrittore Dan Slott: molti dei vecchi fan, quelli affezionati a Parker-quello-vero, l’hanno considerata un’idea quasi blasfema, inaccettabile, troppo fuori dalle righe.
In parte posso capirli: il fan ragiona da fan e non desidera che il proprio personaggio venga manipolato troppo.

Ma per me, che non leggo regolarmente l’Uomo Ragno dai primi Anni 90, l’idea di Slott è talmente pazzesca e coraggiosa (per lo meno per un fumetto-icona-simbolo) che mi ha spinto a tornare a leggere, divertendomi parecchio, un personaggio che non frequentavo da una ventina d’anni.
Da un certo punto di vista quasi mi dispiace che – inevitabilmente e com’era probabilmente previsto e prevedibile – l’originale Peter Parker stia per tornare.

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Il bello della pura fruizione è che non bisogna faticare granché (a parte per tirar fuori il denaro per l’acquisto) per potersi godere nel modo che si preferisce il prodotto acquistato, la propria merce: nessuno può imporre il modo di fruizione del proprio sacrosanto e sudato acquisto.
Come fruitore ho la libertà di fare delle storie, dei personaggi ecc. l’uso che meglio credo: se voglio abbandonare i miei stereotipi, le mie idee preconcette e i miei pregiudizi lo posso fare, così come posso non farlo per nulla. Una volta che l’opera riprodotta è tra le mie mani essa è totalmente mia e ne faccio, materialmente o meno, ciò che voglio.

Io personalmente ho scelto di accettare con gran divertimento questo plot diSlott (scusate… non ho resistito!^^)

Divertente stupirsi di quanto sia diverso questo nuovo Uomo Ragno Superiore! Ha già ucciso e quando non uccide quasi ammazza di botte i criminali; è un vero duro, spietato, le prende sode dai Vendicatori (dei quali è, ricordiamolo, un membro) dopo aver però dato un cazzotto da paura a Cap. America, è pieno di disprezzo per gli eroi “buoni”, salvo ritrovarsi a fare le coccole a una bimba in pericolo di vita… E ancora: Superior Spider-Man usa supertecnologia, ha ingaggiato un esercito privato, possiede nanobot sparsi ovunque, ha una base assolutamente non-segreta tutta sua (gentile dono del sindaco)…
Devo proprio ringraziare di non essere un fan dell’Uomo Ragno, del vecchio Uomo Ragno intendo, perché me la sto davvero godendo alla grande!

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Anche perché è qui che l’Uomo Ragno dimostra tutte le sue potenzialità che, in quanto super-uomo, vanno al di là del bene e del male. Potere, crepitante potere non più tenuto a bada da scrupoli morali o sensi di colpa: l’Uomo Ragno pompato al massimo.

… o forse:

“Non ho mai ricevuto un premio così.
Mai avuto questo tipo di vittoria.
Essere un eroe? Mi… si addice.
Finalmente ho conseguito la grandezza per cui sono nato.”

…disse il terrificante Otto Octavius alias Doctor Octopus e attuale Superior Spider-Mandopo aver ricevuto un pinguino di pezza da una bimba che ha appena salvato!

Quindi?…

Al di là delle interessanti e divertenti sottotrame, è proprio questo per me il bello del nuovo Uomo Ragno: la lotta di una mente malvagia “inscatolata” dentro un corpo super-potente che ha scelto di assumersi le proprie responsabilità da supereroe. Una lotta che dà adito a trame e riflessioni assai interessanti.

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Le “sottotrame” sono comunque interessanti e divertenti: il “nuovo Peter Parker” sta cercando di vivere la sua vita in modo radicalmente diverso da come faceva il vecchio (e autentico) Parker.
In queste storie c’è ancora la stupenda Mary Jane, con la quale fino alla storia Soltanto un Altro GiornoPeter era sposato; ci sono la zia May e suo marito (…di cui nulla sapevo), c’è la Gatta Nera; ma soprattutto ci sono nuovi personaggi, prima su tutti l’intrigante Anna Maria (no spoiler!). E ci sono i vecchi nemici: Goblin, Kingpin, l’Avvoltoio, l’Ammazzaragni, Boomerang, Speed Demon… e con loro, naturalmente, le botte elargite da Superior Spider-Man assumono un significato del tutto diverso – e incredibilmente più doloroso - da quello che avevano le precedenti botte elargite dal buon vecchio Peter Parker (quello morto, intendo).
Stesso dicasi col rapporto con James Jonah Jameson, ora sindaco di New York: eh sì, le cose hanno preso una piega del tutto diversa da prima.

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Però per quanto questo nuovo Superior Spider-Man sia cool e rappresenti il sogno più grande di tutti (condiviso da chiunque al mondo, mondo vero o di carta che sia), per lui non sono tutte rose e fiori. Nonostante il “buon” Dottore, ormai Peter a (quasi) tutti gli effetti, abbia scacciato i fantasmi del passato e pare abbia trovato persino l’amore, sembra non essere del tutto felice.

”Pensavo che imprigionare la mente di Parker nel mio corpo moribondo fosse la vittoria definitiva.
Ma ho iniziato a rendermi conto di aver imprigionato anche me stesso nel suo corpo. Nella sua vita. Mi impone miriadi di limitazioni.”

Già. Nonostante tutto questo divertimento per noi lettori/trici, sappiamo bene che prima o poi il Dottor Octopus farà la mossa sbagliata e il vero Peter Parker tornerà dal regno della morte…
Alla Marvel (così come in tutte le Case editrici mainstream, con bilanci milionari da salvaguardare) regna il diktat gattopardiano del “tutto deve cambiare affinché nulla cambi”.
Ok: però tutto questo cambiamento che alla fine forse non cambierà nulla avviene con un sacco di divertimento per noi.
Sarà interessante vedere come il vero Parker riuscirà a sistemare, o meglio a gestire i numerosi e rivoluzionari cambiamenti che il Dottor Octopus sta mettendo in atto nella “loro” vita.

Infine, se dovessi dire un numero degli 11 che ho letto che mi è piaciuto in modo particolare, direi senza indugio il n. 10 (“Il male necessario”, pt. 1 e 2), un albo che mi ha fatto esclamare “Ommadònna!!!” almeno quindici volte durante la lettura! E poi il n. 11, nel quale tutto quanto – in primis la vita di “Peter Parker” - comincia a prendere un piega piuttosto sinistra e decisamente sconvolgente…

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Se già amate Spider-Man tutto quanto scritto fin qui non vi è di alcuna utilità; se Spider-Man non lo conoscete troppo e se non soffrite di aracnofobia, vi consiglio spassionatamente questa serie mensile, scritta da Dan Slott, talvolta coadiuvato da Christos Gage e disegnata splendidamente da Giuseppe Camuncoli, Humberto Ramos, Ryan Stegman, Marco Checchetto.

All’interno degli albi ci sono anche le avventure del Ragno Rosso (Scarlet Spider, faccende di cloni e di cloni-di-cloni…), scritte da Chris Yoste disegnate da Paolo Siqueira, Neil Edwards, Khoi Pham, Paco Medina, David Baldeon. Storie cupe, piacevoli e ben disegnate, forse un pochino più difficoltose per quanto riguarda la comprensione per un/a neofita (cloni di cloni…). Magari ne parlerò un’altra volta; per ora mi sento di dire che siamo comunque su altri livelli e su altri territori rispetto alle storie del titolare della testata, Superior Spider-Man.

Orlando Furioso

 

Note:

[1]…se non si vogliono considerare “politiche” le storie dei primissimi Anni 70 sugli scioperi studenteschi o quelle sulla droga…

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The Phantom

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The Phantom

L’Uomo Mascherato

di Lee Falk, testi
Ray Moore, disegni

a cura di Max Bunker

(8 storie complete dal febbraio 1936 al gennaio 1939)

vol. cartonato, b/n, 640 pag.

euro 14,99


Mondadori Comics

.

“Ma questa è una donna!”
”E anche questa! La banda aerea è formata da sottane!”
”Per poco non mi hai ucciso. Fortuna che la tua mira non è perfetta!”
”Farò meglio la prossima volta! E dica ai suoi uomini che noi siamo donne e non
“sottane”.”

 

Dunque, qual è il segreto?

Un fumetto pubblicato originariamente nel 1936 (settantadue anni fa) riesce, già alla sua terza vignetta, a catturarmi in modo così totalizzante al punto da non lasciarmi sentire nient’altro che i rumori dell’oceano, della giungla e le parole dei personaggi.
Deve per forza esserci un segreto.

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Dunque il segreto di queste storie di The Phantom, opera di Lee Falk, creatore e scrittore, e di Ray Moore ai disegni, è comune a quello di altri Grandi Fumetti: in qualche modo riescono a bypassare decenni, mode, gusti, canoni e l’erosione del tempo.
Non posso pensare che sia qualcosa di calcolato, anche perché prevedere effetti futuri su una cosa così aleatoria come una storia a fumetti non credo sia semplice o possibile. Non credo che i Grandi Maestri del Fumetto fossero, mentre creavano i loro capolavori, pienamente coscienti della potenzialità e della grandezza di ciò che stavano facendo.

Di sicuro – voglio crederlo fortemente – c’entrano amore e magia. Certo: i soldi, la professione, sbarcare il lunario, superare la concorrenza e tutte le altre cose ben poco romantiche che si accompagnano a moltissime delle grandi opere e creazioni  a fumetti (e non solo); ma l’amore deve entrarci in qualche modo, non credo sia possibile diversamente.

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Amore sconfinato per l’Avventura e per il narrare (Falk fu anche scrittore e regista per il teatro oltre che romanziere).
Pura avventura, narrata con un ritmo incalzante ed efficace ancora oggi e nonostante l’inevitabile rimontaggio delle strisce: avventura condita con suspence, continui cliffhanger, sentimento, lotta e una perfetta, sapiente dose di ironia. Tutto questo magistralmente orchestrato dalla scrittura di Falk e dai bellissimi disegni di Moore contribuisce a far calare chi legge in un’atmosfera senza tempo, esotica e sospesa tra il batticuore, la tensione e la speranza.
Parlavo di amore perché non possono essere stati solo il denaro e le necessità di sopravvivenza a far sì che Lee Falk abbia scritto ininterrottamente le avventure di Phantom dal 1936 fino all’anno della sua scomparsa avvenuta nel 1999.

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Dietro la sceneggiatura di Falk si percepiscono chiaramente il divertimento e la passione da lui stesso provati nell’ideare quelle storie, che pescano in modo originale dai fuilleton ai pulp-crimes, passando per i precedenti eroi mascherati come Zorro, mescolando tutte queste suggestioni in un’opera nuova e per l’epoca molto originale. Tant’è che il suo successo fu immediato e strepitoso, oltre che meritatissimo.

The Phantom, detto anche l’Ombra che Cammina, è una sorta di archetipo del supereroe: è probabilmente il primo in ordine di tempo ad indossare una calzamaglia come costume e pur non avendo superpoteri (ma grandi responsabilità sì!) ha caratteristiche psico-fisiche che lo rendono più forte, veloce, potente e intelligente di un comune essere umano. Eccezionale, ma restando pur sempre un uomo, anche se gli abitanti e le tribù della giungla lo considerano immortale, un Fantasma, un’Ombra.

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Una storia risalente a secoli addietro lo ha portato a un giuramento solenne e totale: proteggere gli innocenti:

“Dedico la mia vita alla distruzione di tutte le forme di pirateria, avidità e crudeltà. I miei figli e i loro figli seguiranno le mie orme”

Giuramento piuttosto impegnativo che obbliga innanzitutto ogni Phantom a essere padre e a sperare di non avere solo figlie femmine…
Le sue storie si svolgono in terre che non ha importanza identificare con precisione sul mappamondo: sono comunque archetipi di quell’esotismo occidentale che prese piede sin dalla fine del Settecento. Giungle e pagode, savane e foreste, selvaggi antropofagi, belve feroci… “naturalmente” tutto sotto l’attenta e benevolmente paternalistica guida dell’Uomo Bianco, signore assoluto sempre e comunque.

Ma per carità, non andiamo a ideologizzare The Phantom ché faremmo la triste figura (e fine) dell’Hergé “razzista” e non mi pare il caso: The Phantomè il prodotto di un’epoca che stava faticosamente uscendo dal periodo coloniale e Falk un normale uomo occidentale della sua epoca (era nato nel 1911).
L’ottica stessa nella quale agisce L’Ombra che Camminaè quella paternalistica dell’uomo bianco che vuol vedere nel “buon selvaggio” le potenzialità per diventare più “civilizzato”.

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La struttura originale delle storie, una striscia formata da tre o quattro vignette che veniva pubblicata quotidianamente sui giornali dell’epoca, fa sì che testo e disegni dovessero continuamente stimolare l’attesa dell’accadimento successivo e che quindi la storia non potesse mai permettersi punti morti o parti poco dinamiche, pena l’immediato calo d’interesse da parte del pubblico.

Come ben spiega Enrico Fornaroli nell’introduzione al volume su Mandrake e L’Uomo Mascherato dei Classici del Fumetto di Repubblica (n. 15, 2003):

“Una striscia giornaliera è costruita in modo che la sua lettura non sia troppo veloce e che la situazione narrativa non risulti incomprensibile anche a chi ha perso qualche puntata o a chi, semplicemente, ha la memoria corta. L’abilità di Lee Falk in questo campo è sorprendente: anche lette una dietro l’altra le sue strisce non sono mai ripetitive.”

Dunque il risultato erano – e sono - sequenze riuscite, efficaci, divertenti, emozionanti e coinvolgenti; storie meritevoli di essere lette oggi come settantadue anni fa.
E’ evidente che per chi legge oggi quelle storie, esse appaiono in certe parti ingenue, sopra le righe (aggiungerei “deliziosamente”!) e, quando si tratta di sentimenti, abbastanza impacciate, e forse per questo ancor più tenere in quei pochi, romantici e appassionati momenti d’amore tra l’Ombra e la sua fidanzata Diana Palmer.

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E’ proprio lei, Diana, il primo personaggio a comparire nella prima vignetta della prima striscia: una donna forte che atterra con un cazzotto il suo istruttore di boxe.
E ancora, le donne sono le protagoniste della seconda storia del volume (“La banda aerea”): una gang di criminali formata esclusivamente da donne guidate da una baronessa pronta a tutto.
Ma non ci si aspetti un fumetto femminista: siamo nel 1936 ed è già “tanto” che qualche privilegiata, come Diana Palmer che viene da una ricca famiglia borghese, possa più o meno decidere della sua propria vita.

Dicevo all’inizio di queste righe che, per me, The Phantom ha un segreto, un “qualcosa” che gli permette di oltrepassare la barriera del tempo senza perdere in godibilità  e senso della meraviglia e questa non è una caratteristica che possa accomunare indiscriminatamente tutti i Grandi Fumetti del passato: ci sono Grandi Fumetti che pur non perdendo un briciolo della loro importanza storica, riletti oggi non ce la fanno a sfondare quella porta corazzata di “saputoneria”, cinismo e “ormai-ho-già-visto-tutto” che ahimè ci portiamo un po’ tutt* dietro, specie se leggiamo fumetti da un bel po’. Farne i nomi sarebbe ingeneroso (e comunque, si tratta sempre di mie opinioni personali).

Al contrario, queste prime, splendide avventure del primo super-eroe in calzamaglia  della storia dei fumetti, pur “vecchie” di settantadue anni, con disegni che anche senza l’uso di linee cinetiche pare si muovano e schizzino fuori dalla pagina, narrano avventure che funzionano ancora egregiamente, raccontano storie capaci ancora di coinvolgere e divertire tantissimo chi abbia la fortuna di leggerle.

Al solito, sono una frana coi “riassunti”, quindi fidatevi di voi stessi/e: andate in edicola o in fumetteria, prendete questo volumone in mano, sfogliatelo, annusatelo, rigiratevelo, leggetene qualche tavola e poi decidete. Decidete per il meglio: leggetevelo tutto!

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Outro: Fuori Tempo Massimo?

Fa sorridere me stesso questo mio grandissimo entusiasmo dimostrato solo oggi, per un fumetto pubblicato in Italia sin dal 1936, soltanto sette mesi dopo la sua prima apparizione americana.
In realtà il mio incontro con L’Ombra che Camminaè piuttosto datato: ogni tanto, quand’ero piccolo, quindi moltissimi anni fa, me ne capitava qualche albo in casa, prestato da qualche amico di famiglia (dei miei fratelli maggiori) o vinto a carte o comprato da mio papà in qualche stazione ferroviaria per alleviare l’attesa di un treno.

Ho diversi ricordi legati all’Uomo Mascherato: il suo costume rosso (questo è il colore scelto in Italia per il suo costume), i pigmei piccoli e grassottelli della tribù dei Bandar e soprattutto il Teschio, un topos ricorrentissimo, anzi direi fondante, nella mitologia del nostro eroe.

Ricordo questi giornalini spillati con coloratissime copertine e una grossa testata, ricordo che li leggevo e mi piacevano, ma poco dopo, nel 1970, arrivarono in Italia i supereroi della Marvel che mi diedero qualcosa in più: una storia che continuava albo dopo albo e non finiva mai, in cui tutto era collegato e nella quale mi era più facile, anzi mi era assolutamente naturale, identificarmi.
Inoltre c’erano i poteri, i superpoteri ossia tutti i miei sogni descritti lì davanti ai miei occhi, su carta: bastava aprire il giornaletto e la realtà si sgretolava in un istante per riformarsi, mille volte più emozionante, nella mia fantasia.

Per qualche anno nelle mie letture non ci furono più occasioni per The Phantom e la sua Giungla. Colpa mia.
Solo recentemente, grazie alla collezione I Classici del Fumetto di Repubblica col già citato n. 15 del maggio 2003 (“Mandrake e L’Uomo Mascherato”) e poi con I Classici del Fumetto di Repubblica Serie Oro n. 18 del gennaio 2005 (“L’Uomo Mascherato – Il Mito dell’Ombra che Cammina”) ri-scoprii con grande entusiasmo alcune di quelle storie.
Da allora, pur non essendomi dato alla caccia di ristampe o albi antichi – che probabilmente non potrei comunque permettermi – ho riletto diverse volte quello splendido volume (e con esso anche quello dedicato a Mandrake, dello stesso Autore) e nella mia testa si è liberato un posto per eventuali e desiderate altre uscite.

Qualche anno dopo, nel 2009, l’Eura Editoriale (ora Aurea) fece uscire una nuova testata dedicata a Phantom – L’Uomo Mascherato, che però chiuse dopo solo sei numeri nell’ottobre del 2009. Comprai tutti e sei le uscite e mi dispiacque molto per la chiusura della testata.

Ma evidentemente il vero amore per l’Ombra doveva scattare con questo prezioso volume della Mondadori Comics che ristampa filologicamente le sue prime otto storie, del quale spero ardentemente ci sia presto un seguito (e poi, sognare non costa nulla, altri seguiti ancora).
Fuori tempo massimo dunque?
Probabilmente sì, ma l’amore arriva quando vuole, fregandosene di mode ed età e il tempo in cui arriva è sempre quello giusto!

Buonissima lettura!

 

Orlando Furioso

 

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Zero e Uno – Emilia

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   Zero e Uno                           Emilia

   di Biro                                        di Fabio Bonetti

   vol. brossurato                             vol. brossurato
   grande formato 29x21                    con bandelle
   32 pag., colori                              64 pag., 4 colori

   euro 12                                       euro 15

                              MalEdizioni

.

Forse vi ricorderete che proprio un anno fa su queste stesse pagine vi parlavo della Casa editrice MalEdizioni, in termini abbastanza entusiastici.

Ebbene con queste due uscite della Casa editrice bresciana l’entusiasmo è ulteriormente aumentato. Parecchio, anche.

Ho scelto di parlare nella stessa pagina di Zero e Uno e di Emilia non perché questi due fumetti [1] o i loro autori debbano avere necessariamente qualcosa in comune, ma solo perché entrambi sono pubblicati dalla MalEdizioni, perché li ho letti a brevissima distanza l’uno dall’altro e perché entrambi mi sono piaciuti moltissimo.
(…e per sollevarmi un pochino dal senso di colpa che provo per non aver scritto niente da parecchi giorni…)

Zero e Uno

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“Una fiaba nera e malinconica sull’emarginazione, l’amore mterno e il conformismo, che ci pone la domanda: fin dove siamo disposti a spingerci per farci accettare dagli altri?”
(Dalla quarta di copertina di Zero e Uno)

Lanciata la proverbiale moneta, comincio a parlarvi di Zero e Uno, opera di Biro, bresciano classe 1974 e con un curriculum extra-fumettistico decisamente notevole.
Infatti la caratteristica che mi ha più colpito in questo volume di grande formato è la straordinaria perizia tecnica di Biro, le cui vignette pare escano fuori per venire incontro ai nostri occhi. Il taglio tridimensionale dei disegni, la scelta di inquadrature inusuali e di prospettive da vertigine (letteralmente da vertigine sono la quarta e la quinta tavola della storia!) fanno capire che si tratta di un lavoro in cui nulla è lasciato al caso, profondamente meditato e voluto. La resa grafica infatti è perfetta e sfogliare il volume diventa una gioia per gli occhi. A cominciare da una copertina in cui si fondono disegno fumettistico e grafica, design; una copertina in cui non solo vengono presentati i principali attori della commedia nera che ci aspetta, ma che – riguardata a fine lettura del volume – dice molto più di quanto non sembri…

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Lo stile di Zero e Unoè in un certo senso spiazzante, in quanto l’autore mescola in modo sapiente iperrealismo e personaggi rappresentati in modo cartoonesco: non voglio dire che questo tipo di commistione sia nuova o particolarmente originale, ma il modo in cui Biro abbina ad ogni personaggio una spiccata dualità, rende Zero e Uno un’opera, e una lettura, particolarmente intensa. Mi hanno inoltre colpito molto le ombre, curate da Biro con molta attenzione: esse sono parti importanti della storia e contribuiscono in modo determinante all’atmosfera nera e duale della storia.

Dualitàè per me una delle principali chiavi di lettura di questa storia così intensa, che vede coinvolti un bimbo, Geremia, la sua mamma, un inatteso trasferimento, una scuola nuova e dei nuovi compagni e insegnanti e un “dolcissimo cagnolino” che Geremia chiamerà Uno.

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Dualità, perché in questa fiaba nera e malinconica nulla è (solo) ciò che sembra, ogni cosa, ogni persona(ggio) nasconde un’ombra che solo leggendo fino alla fine si potrà scoprire se nera e malvagia o candida e pura o ancora disperata in un eterno bilico.

Geremia, nonostante sia ancora troppo piccolo per farlo, dovrà effettuare una scelta dolorosissima, la scelta peggiore che si può chiedere a un bambino e nessuna delle conseguenze della sua scelta sarà minimamente prevedibile.

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Zero e Unoè una storia che tocca nel profondo e tocca corde dolorose, ma è pur sempre una fiaba e conserva in sé il senso di meraviglia, stupore e desiderio che ogni fiaba riuscita deve avere e trasmettere. E’, questo, un volume da leggere e rileggere dopo qualche giorno non tanto per, come troppo spesso si dice retoricamente,“scoprire cose che non si erano viste/percepite alla prima lettura”, quanto piuttosto per scoprire dentro di noi che leggiamo, cose nuove, sentimenti e prese di posizione che alla prima lettura non abbiamo fatto emergere.
Volume consigliatissimo, stupendo.

 

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striscia_MalEdizioni


Emilia

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“Dodici microstorie sospese tra ironia e malinconia che mettono al centro il tema della cura tra generazioni”
(Dal risvolto di copertina di Emilia)


Emilia
, di Fabio Bonetti, modenese nato nel 1981, è un volume composto da dodici microstorie che hanno per protagonisti una nonna, Emilia appunto, della quale è impossibile non innamorarsi immediatamente, e suo nipote.

Si potrebbe pensare: cosa c’è di meno attraente, cos’ha meno appeal di una nonna e suo nipote? Certo, c’è il precedente di Cappuccetto rosso, ma in quella fiaba, se ci pensate, la nonna ha più una funzione simbolica che altro (oltreché una funzione gastronomica per il lupo), ma in realtà non ha quasi parte nella celebre fiaba.

Emilia invece è una nonna, e direi soprattutto una donna, assolutamente vera e piena di cose, ricordi, sentimenti, giudizi, amore, rabbia e buonsenso.
Purtroppo per lei, Emilia non è esattamente in perfetta salute, ma ciò non le impedisce di esercitare sempre, comunque e in ogni situazione, la sua dignità e il suo essere persona.

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Detta così, come ho fatto qui sopra, pare di trovarsi di fronte a un trattato politico sulla dignità delle persone anziane… e forse, in parte, è anche così, ma la cosa più importante è invece che in questo volume troviamo delle storie, brevi e bellissime, che si attanagliano al cuore e commuovono molto lasciandoci dentro un miscuglio intenso di sorriso e malinconia e tanta partecipazione.

Una delle cose che più ho apprezzato nel volume è stata proprio l’assenza di retorica (“sentimento” che nei confronti delle persone anziane è sempre in agguato ed è particolarmente odioso); niente retorica “buonista” né tantomeno cinismo cool, ma piccole storie piene di spunti, di allegria come di tristezza e soprattutto di vita.

Emiliaè anziana, certo, e non sta tanto bene e, come purtroppo spesso accade col sopraggiungere dell’età avanzata, non è sempre perfettamente “in ritmo” con ciò che le accade intorno, ma ha alcune fortune, certamente costruite con affetto nel corso del tempo: un nipote che non si dimentica di lei e moltissimi ricordi, alcuni dei quali pieni d’amore.

Emilia, inoltre, possiede una certa cosa che in talune situazioni – ad esempio nell’età avanzata e nella malattia – si dimostra indispensabile per non soccombere completamente alle asperità e alle durezze della vita: quella certa cosaè l’ironia.
Certo l’ironia – e ancor più l’autoironia di cui Emiliaè dotata - non nascono da sole, sono sempre il frutto di un lavoro che le persone fanno su se stesse. E possederle aiuta, ma certo non basta a scacciare quei brutti momenti di malinconia e di stanchezza, e talvolta di umanissima volontà di morte, che ogni tanto fanno capolino.

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Ogni microstoria ci fa capire che Emilia ha avuto e ha una vita in cui i sentimenti sono importanti e tenuti in considerazione, più delle malattie, più della consapevolezza del proprio stato di debolezza.
Una delle prove di questo è l’affettuosa presenza del nipote, un giovanotto anch’egli spiritoso e del quale non sappiamo molto se non che è tanto affezionato ad Emilia e non solo la ascolta, ma le parla, le racconta a sua volta delle cose e le fa domande.
Perché, guarda caso, per qualcuno è ancora importante interessarsi alle persone più deboli ed essere loro vicino, nonostante in questo momento storico l’interesse per le persone deboli pare essere diventata una cosa della quale vergognarsi, anzi della quale non interessarsi proprio quando addirittura non si arrivi al disprezzo per le persone deboli.

Tornando al fumetto: le microstorie non hanno necessariamente un “inizio” e una “fine”, spesso si tratta di situazioni nelle quali ci troviamo proiettati/e in media res (proprio come accade nella vita), ma tutte, tutte nessuna esclusa ci strappano un sorriso – quando non una risata – e talvolta uno stringimento al cuore per la commozione.

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Emilia_02

Tutto questo Fabio Bonetti ce lo racconta usando uno stile di disegno essenziale ed efficace, usando solo quattro colori e, talvolta in alcune vignette, le tonalità del grigio.

L’autore rappresenta i personaggi con una particolarità, ossia sembra quasi che essi indossino una maschera (come si può vedere dalle immagini a corredo di questo scritto: quasi sempre la linea del volto lo circonda per intero, dando appunto un “effetto maschera”) e questo mi ha colpito molto, perché – invece - non ci sono personaggi meno “mascherati” di questi: Emilia, il nipote, i medici, le altre persone che compaiono nelle dodici microstorie, sono appunto più persone che personaggi. Chissà se quest’ultima è solo una mia impressione o se le “maschere” sono realmente volute dall’autore…

Ad ogni modo anche per questo volume il mio spassionato consiglio è quello di acquistarlo e leggerlo. L’effetto non potrà che essere profondamente intenso e occhi, mente e cuore ne beneficeranno.

Orlando Furioso

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Emilia_05

Note:

[1] La MalEdizioni ha il CORAGGIO di chiamare i fumetti… fumetti! Non “grafic nobelz”, non “ventisettesima arte”, non “danza classica disegnata” o altri simili, inutili, colpevoli/zzanti neologismi. Per questo motivo ai miei personalissimi occhi acquisisce ulteriori “punti” di stima.

ciao Giorgio

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Giorgio_Rebuffi

Giorgio è morto oggi e noi gli volevamo bene, perché lui è stato importante per noi.

Gli voleva e gli vuole bene chi l’ha conosciuto personalmente e sicuramente gliene ha voluto anche chi l’ha conosciuto tramite le sue storie e i suoi disegni, i suoi bellissimi fumetti che hanno deliziato tantissime persone, piccole e grandi.

Scrivo queste righe per me, perché a Giorgio oramai non servono più.

Forse gli sarebbero servite prima, fino a ieri.
Ma si sa… gli impegni, le tante cose da fare, quell’assurda paura di “disturbare” che mi aveva fatto diradare le email che gli scrivevo.
Giorgio probabilmente aveva cominciato a fare un po’ più di fatica a scrivere, perché le ultime email che mi ha scritto, oramai tanti mesi fa, erano più laconiche, più stanche.
O forse io ero così noioso che non sapeva che dirmi.

Ho visto Giorgio alcune volte, l’ultima delle quali ormai già tre-quattro anni fa, e mi ha sempre regalato qualcosa: un disegno col mio nome, un volume delle sue raccolte.
Era così difficile capirlo, sussurrava, non poteva parlare più forte né poteva camminare. Ma sorrideva paziente ai miei stupidi racconti e si scherniva quando lo chiamavo Maestro.
Ma io gli dicevo “Maestro, ma lei è un maestro, lo accetti!” e si rideva.

Per me è stato un onore e soprattutto un piacere averlo conosciuto. E mai lo dimenticherò. Spero che, per quel poco che conta, sapesse quanto lo stimavo. E’ un egoismo mio, certo. Tutto si fa per noi che restiamo.

Ciao Giorgio.

 

orlando

Pompei

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Pompei_cover


Pompei

di Toni Alfano


vol. brossurato
136 pag., bicromatico
(b/n + rosso)


euro 17

Neo Edizioni


.

“Durante l’estate del 79 d.C. Pompei fu sommersa da una marea scura di lapilli… […] Quanto segue non è la rievocazione di un fatto del passato, ma il racconto dei nostri giorni, dei nostri drammi individuali e sociali, attraverso quel simbolo.”
(Pompei, pag. 7)

Finalmente.

E’ bellissimo leggere fumetti che piacciono (tautologico, I know…), è stupendo leggere fumetti che oltre a piacere fanno anche pensare.
Invece leggere fumetti che ti prendono a sberle in faccia, cos’è?

Vediamo, magari ci arriviamo dopo, magari no.

Comincio dall’inizio.

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Pompei_pag20

Ci sono dei fumetti con una copertina che urla direttamente ai miei sensi – e alla mia avidità – e pur senza sapere alcunché di quello che sta “sotto” la copertina, Voglio Assolutamente Avere quel volume
Nel caso specifico: Pompei, di Toni Alfano.

Chi segue Fumetti di Carta sa bene che non c’è molto di “razionale” nel modo in cui scelgo le mie letture e non è raro che le mie scelte siano dettate da questioni tutt’altro che ponderate.
Ebbene, non voglio arrivare a dire che la copertina di Pompei“valga da sola il prezzo del volume” (ché, oltretutto, sarebbe offensivo nei confronti dell’autore, che oltre la copertina ha prodotto altre 136 pagine, ognuna della quali degna di essere letta/guardata, ma ci arriviamo dopo), ma dichiarare che questa cover ha un fascino enorme ed è stata “la molla”, quello sì, lo dico.

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Pompei_pag38

Penso che un’opera una volta finita tra le mie mani sia proprio “mia”, posso cioè farne ciò che voglio e la leggo/guardo/ascolto (= interpreto) come voglio, come posso e come so. Come sento, insomma.
Certo, il “rischio” (per chi?) è quello di “travisare”, in parte o completamente, gli scopi originari dell’autore, ma in definitiva – pare brutto dirlo, ma io la penso così – l’autore non ha più voce in capitolo. La voce ce l’ha già messa nella sua opera [1], è quella e solo quella che parla per lui/lei, se ha altro da dire non ha che da realizzare un’altra opera. Oppure farsi ospitare da un talk-show, che comunque io non guarderò.

Su questo blog parlo solo di ciò che mi è piaciuto e Pompei non sfugge a questa regola.
Solo che, in questo caso, il termine “piaciuto” è decisamente inadatto, e incompleto, per (cercare di) definire le sensazioni, e la sensazione generale, che quest’opera mi ha provocato.
Perché certo, eccome se m’è piaciuto, ma mi è ha anche provocato sofferenza. Non è stata una lettura semplice e indolore, specie la seconda rilettura, che mi ha permesso di penetrare ancora più a fondo l’opera e soprattutto di affinare la mia personale interpretazione.

Da cui la domanda iniziale: “cos’è” un fumetto che ti prende a sberle in faccia?
La questione posta in modo così semplicistico, ne sono consapevole, non significa nulla; d’altronde non è facile (cercare di) spiegare determinate sensazioni, che sono così personali, intime e in un certo senso “pericolose” da sciorinare pubblicamente.
Ma ci tengo (molto) a segnalare quest’opera a fumetti, quindi mi ci provo, con la coscienza che non so bene dove andrò a parare: sto improvvisando!

Non sempre rileggo immediatamente un’opera a fumetti, ma nel caso di Pompeiè stato quasi inevitabile, visto che la prima lettura mi ha lasciato addosso stupore, meraviglia e confusione.
Andiamo avanti.

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Pompei_pag56

Pompeiè formato da cinque capitoli e, credevo durante la prima lettura, non racconta una storia. Non in modo lineare, perlomeno.
Il primo capitolo – Io non esisto - è introdotto da un versetto dell’Uttara Gita: con questo Toni Alfano si guadagna la mia istintiva simpatia (la mia prima e primeva passione è la cultura Indiana antica, credo di averlo ripetuto sovente).
Il titolo del capitolo dice molto ed è da questa terrificante asserzione che l’autore comincia a indicare la via per un viaggio attraverso una spirale cosmica che si concluderà nell’ultima pagina. Ma il percorso sarà, ripeto, tutt’altro che lineare.

“Sei nato senza volerlo […] Hai impiegato la tua bellezza in qualcosa in cui non credevi. Qualcosa che ti ha consumato fino a renderti inoffensivo. Qualcosa che ti ha impedito di divenire te stesso.”

Da questa asserzione, comincia il viaggio, rituale, iniziatico, di vita, di morte, di consapevolezza, di passione. Di amore anche.

Potrebbe sembrare che le immagini si susseguano senza una catena logica, ma i testi pur nella loro complessità, nel loro essere talvolta quasi ermetici, si fondono con le immagini e raccontano non tanto una storia, ma forse un archetipo di storia. Non aspettatevi, come sempre, ma stavolta a maggior ragione, alcun tipo di “riassunto”. Non tenterò nemmeno di provarci, mi spiace. 

Sono certo che, e ne ho avuto consapevolezza specie alla seconda lettura, Pompei nel suo susseguirsi di capitoli dai titoli così strani e complessi, parlasse “proprio” di me!

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Pompei_pag63

Toni Alfano prende delle figure e lavora sul loro significato, ci lavora intorno e dentro, le trasforma in qualcosa di originale e di straniante ma archetipico allo steso tempo: un effetto straniante che parla direttamente alla testa e contemporaneamente al cuore. Se si vuole ascoltare, s’intende.
Non è un meccanismo, un modo di comunicare inventato dall’autore, la sua originalità non sta in questo, dato che molti autori e autrici di fumetti underground, dagli Anni 60 in poi, hanno utilizzato questo tipo di “collage grafico-emotivo” (che termine orrendo… ma non so cos’altro usare, e soprattutto spero che le immagini qui inserite siano più chiare del mio balbettio…) per uscire dai rigidi schemi del fumetto. L’originalità dell’autore sta nell’arte di assemblare tutto questo, rendendo Pompei un qualcosa di assolutamente unico nel panorama fumettistico italiano attuale.

Certo: è un fumetto strano quello di Toni Alfano, non è facile, non “intrattiene”, non lo consiglierei “a chiunque” (come faccio molto spesso), può turbare – con me l’ha fatto – e probabilmente abbisogna di più letture per essere assimilato appieno. Tutte cose positive, a mio modo di vedere. Parlavo di sberloni: sono proprio quelli che provocano cambiamenti e soprattutto reazioni, non è vero? Pompeiè piuttosto spietato e non ha nulla di “carino”.

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Parliamo di stile? O, in questo caso, non sarebbe forse meglio parlare di stili?
Nei cinque capitoli troviamo una variegata alternanza non solo di stili, ma di giustapposizioni di immagini e di immagini-e-testo ed è difficile per chi legge – o per lo meno lo è per me - stabilire un canone comune e definito: la mia sensazione è che l’autore, nella maggior parte del volume ed escludendo i disegni suoi realizzati all’uopo, prenda delle immagini e le lavori sino a farle diventare altro da quelle che erano in origine, caricandole magicamente di simboli e di senso.
Contorto?
Contorte sono le mie parole, non necessariamente il lavoro dell’autore.

“Sono stato a Pompei e ho avuto paura, perché la rabbia brucia i sogni di chiunque e carbonizza gli angeli appollaiati alla vita. Ho avuto paura.”

Il secondo capitolo è Trasumanar Riorganizzar, titolo che cita Dante e Pasolini, e mi sembra autobiografico. Dico questo perché è forse l’unico capitolo nel quale non mi sono riconosciuto, nel quale l’autore non parlava di me. Forse. Un flusso di coscienza? Ricordi e sensazioni legate ad eventi vissuti dall’autore? Comunque vi ho trovato citazioni e situazioni, se non mie, che posso pur sempre riconoscere, magari guardando un po’ dall’esterno, prima di farmi riassorbire dagli intensi capitoli successivi.

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Onironautica, splendido titolo per il terzo capitolo, inizia invece con una delle frasi-simbolo (e mitiche) di Walt Disney e, contraddicendo tutto quello che ho scritto finora, possiede una sua linearità e i disegni mi sembrano opera della stessa mano. E’ forse il capitolo più immediatamente comprensibile ed è diviso in quattro parti, la seconda delle quali mi ha colpito come una sferzata in piena faccia. Disegni cupissimi e immagini di uno o più inferni che, a ben scrutare nel profondo, probabilmente conosciamo. Chi più, chi meno… Mentre la terza parte è quella più, se vogliamo, dolce, ci sono una mamma e un bambino, e poi la quarta parte, selvaggia, sensuale e sessuale… e alla fine del capitolo si comprende, io per lo meno ho compreso, che tutto era (è) collegato e faceva parte dello steso flusso.

Il quarto capitolo, Zeppelin, è poetico e simbolico e pare ambientato in un futuro che non è mai esistito, o forse che non è ancora esistito; un volo nel cielo con un mezzo inusuale – uno Zeppelin appunto; tanto testo, tante immagini, molti riferimenti alla paura e ritorna la citazione al mattone rosso che compare nel primo capitolo e forse altrove (mi attende, stasera stessa forse, una terza rilettura di Pompei) con un “finale” che… oh, non è possibile riassumere, mi spiace.

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L’ultimo capitolo è Molok, La Sorgente. Anch’esso introdotto da una citazione (stavolta di Tolstoj). E’ incredibilmente intenso e per me è stato doloroso leggerlo e rileggerlo.

“…la consuetudine umana […] non tollera il paradosso. Non sopporta che “questo” sia al contempo “quello”. “

E’ in quest’ultimo capitolo che si chiude il cerchio, o che si giunge all’estremo della spirale. E’ in quest’ultimo capitolo che l’autore abbandona per un momento la comunicazione esoterica per lasciarsi andare a dichiarazioni essoteriche [2], come questa:

“Avevamo finalmente capito una cosa: in quel percorso infinito, la strada giusta era semplicemente “fermarsi” […]”

Sono, stavolta, persone, due persone riconoscibili a compiere l’ultimo tratto di strada, a – in qualche modo – spiegare quello che fin lì è accaduto. Sino a giungere al devastante finale, catartico, magnifico e terrificante. Perché, essendo ora l’opera “mia”, quel finale così dolce e poetico mi ha spaventato e turbato quasi fino alle lacrime, perché ha dilatato una ferita che è profonda e forte in me, ma che è presente in ogni creatura umana sin dal giorno della propria nascita.

Pompeiè un’opera di straordinaria intensità e che in modo straordinario mi ha colpito. Un viaggio da fare, comunque, prima o poi. Complimenti sinceri all’autore. E grazie.

Orlando Furioso

 

Note:

[1] Intendo anche le scelte stilistiche, la scelta editoriale, il formato, le modalità di vendita e distribuzione: insomma ogni scelta e situazione direttamente collegata all’opera.

[2] Quella “s” in più cambia tutto, non dimentichiamocelo. Oppure, come ebbe a dire un giorno una specie di filosofo buddista da salotto:“Tutto ciò che è esoterico, è essoterico”… ?

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Pompei_pag124

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